La mostra di Banksy a Palermo. Riflessioni di un visitatore

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di Antonino Balsamo

Ritratto di ignoto. L’artista chiamato Banksy” è il titolo di una magnifica mostra in esposizione a Palermo nelle due sedi del Loggiato di S. Bartolomeo e di Palazzo Trinacria alla Kalsa.

Il titolo della mostra è già una bella provocazione. Il rimando al Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, non vuole semplicemente fare riferimento all’identità misteriosa dell’artista, di cui conosciamo il nome, ma non il volto, da lui volutamente e caparbiamente tenuto nascosto, ma come nel dipinto di Antonello quello che emerge, ammirando un centinaio di opere esposte di questo artista di Bristol, è il mistero insondabile dell’animo umano.

Questa mostra per i palati raffinati, abituati a un tipo di arte diciamo tradizionale, appare rivoluzionaria e irriverente, dove il pennello, le matite e i colori ad olio o a tempera sono sostituiti dalla stampa, dalla serigrafia, dallo stencil… dallo spray e il muro diventa la superficie ideale dove esternare la propria creatività, è la tela che Banksy predilige.

A un primo sguardo il visitatore viene catapultato nell’atmosfera della contestazione sessantottina per i temi tanto cari ai giovani di allora, primi tra tutti quelli della guerra e della pace, per cui Banksy viene quasi solamente e universalmente conosciuto.

Ma ad una attenta osservazione ci si accorge che quello che a Banksy interessa è tutto l’uomo, non solo quello pronto a contestare e dibattere sulle grandi questioni che riguardano la politica internazionale, ma anche quello che si guarda intorno, osserva la gente che si muove frenetica, considera con profonda attenzione quale strada stia percorrendo l’uomo contemporaneo.

Tra le opere fanno capolino alcuni pensieri dell’artista, che evidenziano una sua straordinaria capacità di leggere il reale. E tra tutti quello che colpisce è un pensiero tanto attuale in questi tempi: “I più grandi crimini del mondo non sono commessi da persone che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole. Sono le persone che seguono gli ordini che sganciano le bombe e massacrano i villaggi”.

Percorrendo le sale dove sono esposte le opere balza subito agli occhi quanto la street art abbia ereditato dalla pop art ed è immediato il paragone tra Banksy e l’icona della pop art, Andy Warhol.

I due artisti sono a prima vista lontani l’uno dall’altro; Banksy rifugge dal considerare l’arte come bene di consumo, ma come risultato di scorrerie, per lo più notturne, con il favore delle tenebre, che occupano le prime pagine dei giornali, Warhol, invece, fa del suo stesso nome un marchio per un prodotto da consumo.

L’uno fa di tutto per rimanere ignoto e non piegarsi alle leggi del mercato e alle regole che la società impone, l’altro sempre sulla cresta dell’onda, sempre pronto ad occupare la scena, ostentando una vita anticonformista, il rifiuto del perbenismo, la celebrazione del consumismo.

La mostra sottolinea la distanza tra i due artisti, proponendo la visione di due opere di Banksy, una con un piccolo barattolo di tomato soup di Tesco, l’altra con due dello stesso prodotto, entrambi campeggianti su un sfondo neutro, quasi a considerare l’oggetto rappresentato per quello che è, per quello che vale e non reiterarne l’immagine fino all’ossessione, come fa Warhol con il barattolo non solo della tomato soup, ma anche di altri prodotti in conserva della Campbell’s, come black bean, su sfondi dai colori accesi per convincere l’osservatore di non poterne più fare a meno.

Una ripresa identica dello stile, ma una volontà di comunicazione differente.

Ma al di là della distanza tra i due che la mostra sottolinea, ci sono tanti punti in comune tra di loro, che possono essere oggetto di successive riflessioni, quei sentimenti, quelle meditazioni che Warhol amava vivere nel privato, in una vita nascosta, lontana dai riflettori, e talvolta oggetto della sua indagine estetica, soprattutto nell’ultima sua produzione, sul tema della precarietà della vita, sul senso della morte, sul bisogno della salvezza della propria anima, come eredità della sua formazione cristiana negli anni della giovinezza.

A me ha particolarmente colpito come quella voglia che è innata in ciascuno di noi di giudicare, di condannare, non può non soffermarsi a riflettere sulle profondità dell’animo umano, alla ricerca di un senso da dare alla vita, di un qualcosa per cui valga veramente vivere.

Così le immagini significativamente raccapriccianti e crudeli, accompagnate dai simboli gioiosi utilizzati nei messaggi, ormai a tutti familiari nell’uso quotidiano, per rimarcare la bestialità dell’operare dei potenti e nello stesso tempo la insensata e colpevole distrazione dell’uomo, si accompagnano ad altre in cui le figure si muovono su sfondi chiari, di un bianco intenso o di un luminoso azzurro, che evidenziano come ancora sia possibile ritrovare una via di salvezza.

E paradossalmente questo messaggio di una ragionevole rinascita è incarnato dalle figure di bambini, che possiedono la purezza del cuore e la capacità di stupore, condizione essenziale per cogliere la vera realtà oltre il segno.

Così nella celebre rappresentazione della bambina che tiene in mano un palloncino la speranza è simboleggiata proprio dal palloncino che si libra in aria, proteso verso il cielo, perché “There’s always hope”, c’è sempre una speranza per chi sa alzare lo sguardo e confidare; o nell’intensa immagine di Jack & Jill (Police kids), dove due bambini giocano allegri con i piedi immersi nell’acqua, con indosso giubbotti di protezione con la scritta “POLICE”, perché, come dice il cartello esplicativo che l’accompagna (sono proprio queste didascalie il punto di forza di questa mostra) “Molti genitori sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per i loro figli, tranne lasciarli essere se stessi”, per cui “l’infanzia spensierata… la presunta innocenza dell’infanzia” deve fare i conti con “le preoccupazioni dei genitori e la tendenza ad una società “militarista” che eccede nella protezione familiare”.

Voglio chiudere queste poche riflessioni con lo stupore pieno di ammirazione che mi ha suscitato l’opera, forse la più potente e drammaticamente esplicativa del vuoto e del non senso che definisce l’uomo contemporaneo, dove quattro donne supplici, nelle posizioni tipiche delle sacre rappresentazioni, piangono disperate non ai piedi del Crocifisso, ma davanti a un cartello con la scritta “Sale ends today”, chiara disapprovazione o protesta contro la sostituzione della vera pietas religiosa con l’adorazione del divino consumismo.

Posso dire che ne è valsa veramente la pena trascorrere un pomeriggio domenicale con mia moglie e il mio amico Francesco, altrimenti consumato nella visione di qualche melenso programma televisivo, e lasciarsi interrogare dalle immagini di un artista-non artista, immersi nella bellezza del sentire umano che sempre ci sorprende e com-muove.

Un solo rimpianto: da oggi la mostra è chiusa e chissà se potrà essere vista da altri a causa della pandemia.

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