di Francesco Inguanti
Il primo Direttorio Catechistico Generale è del 1971; il secondo è del 1997 ed il terzo Direttorio per la catechesi è del marzo 2020. Perché è necessario tanto tempo per aggiornare una materia che è sempre più in rapido movimento così come i tempi in cui viviamo?
La scansione di tempo tra questi tre Direttori per la catechesi è di circa una ventina di anni. Certamente, soprattutto nell’epoca digitale, vent’anni sono paragonabili senza esagerazione ad almeno mezzo secolo, ma è anche vero che sono gli anni necessari, quelli di circa una generazione, per recepire i nuovi insegnamenti che vengono offerti in risposta alle esigenze del tempo. Tutti e tre questi Direttori, infatti, fanno seguito ad altrettanti importanti documenti del Magistero, che toccano direttamente la catechesi. Il primo, del 1971, lo ha fatto con l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II; quello del 1997 con il Catechismo della Chiesa Cattolica; mentre quest’ultimo Direttorio ha avuto come riferimenti particolari il Sinodo su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede e l’Esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium.
Nella Guida alla lettura lei sostiene che la più grande sfida con cui oggi la Chiesa deve fare i conti è quella digitale. Non crede che sia altrettanto importante, se non più decisiva, quella culturale, cioè quelle che deriva dall’incontro di popoli e culture che ora più che mai caratterizza la Chiesa universale?
Certamente, la sfida digitale non è separata dall’altra grande sfida che è posta dinanzi alla Chiesa di oggi, ossia quella della globalizzazione. Infatti, il fenomeno digitale è connotato proprio dalla globalizzazione della cultura. Questi sono talmente interconnessi da determinarsi a vicenda, producendo un radicale cambiamento nella vita ordinaria delle persone, a ogni latitudine. Gli strumenti creati in questo decennio manifestano una radicale trasformazione dei comportamenti che incidono soprattutto nella formazione dell’identità personale e nei rapporti interpersonali. La velocità con cui si modifica il linguaggio, e con esso le relazioni comportamentali, lascia intravvedere un nuovo modello di comunicazione e di formazione che toccano inevitabilmente anche la Chiesa nel complesso mondo dell’educazione.
Proprio sull’importanza del digitale lei scrive: “Pensare di essere al passo coi tempi sol perché ogni diocesi e parrocchia possiede la propria pagina web, è un’illusione da cui stare lontani. La presenza nel mondo di internet è certamente un fatto positivo, ma la cultura digitale va ben oltre. Essa tocca in radice la questione antropologica decisiva in ogni contesto formativo, quello della verità e della libertà”. Come deve svolgersi questa dialettica?
Proprio la dialettica tra verità e libertà impone di verificare l’adeguatezza della proposta formativa offerta, da qualunque parte provenga. Essa diventa, quindi, un confronto imprescindibile anche per la Chiesa in forza della sua “competenza” sull’uomo e la sua pretesa veritativa. In un periodo come il nostro, in cui la libertà soffre di una cronica schizofrenia, resa ancora più pericolosa dagli effetti illusori proposti alle giovani generazioni, si rende impellente una riflessione che si faccia carico di mostrare la vera libertà. Il rapporto tra verità e libertà pone ognuno nella condizione di verificare la propria possibilità di realizzazione o il proprio fallimento. Legarsi alla verità è condizione di sopravvivenza in ogni scelta che si compie, perché impedisce di tradire sé stesso con un rifiuto della verità conosciuta. Quando si conosce la verità, d’altronde, la condizione più coerente è quella del rimanere a sua disposizione. La propria individualità è come messa tra parentesi pur di accedere alla pienezza di verità che viene offerta. Se questa disponibilità, tuttavia, è consentita, lo è solo in forza di un’acquisizione di libertà che permette di andare sempre oltre il limite percepito. All’opposto, rimane solo la forma del tradimento e la sua consapevolezza.
Quale insegnamento può venire dall’uso massiccio che è stato fatto del web nei mesi in cui chiese e parrocchie sono state chiuse?
Il periodo della pandemia è stato caratterizzato, anche nel nostro ambito, da un uso importante dei mezzi di comunicazione. Tuttavia è da ricordare, per la trasmissione della fede e per la catechesi, l’imprescindibilità dell’incontro. A riguardo, il Direttorio presenta la catechesi kerygmatica non come una teoria astratta, piuttosto come uno strumento con una forte valenza esistenziale. Questa catechesi trova il suo punto di forza proprio nell’incontro che permette di sperimentare la presenza di Dio nella vita di ognuno. Un Dio vicino che ama e che segue le vicende della nostra storia perché l’incarnazione del Figlio lo impegna in modo diretto. La catechesi deve coinvolgere ognuno, catechista e catechizzando, nell’esperire questa presenza e nel sentirsi coinvolto nell’opera di misericordia. Insomma, una catechesi di questo genere permette di scoprire che la fede è realmente l’incontro con una persona prima di essere una proposta morale, e che il cristianesimo non è una religione del passato, ma un evento del presente. Un’esperienza come questa favorisce la comprensione della libertà personale, perché risulta essere il frutto della scoperta di una verità che rende liberi (cfr. Gv 8,31).
Il documento ribadisce ripetutamente che il primato spetta all’evangelizzazione e non alla catechesi. Nei fatti però l’impegno prioritario dei catechisti nelle parrocchie è quello della catechesi, soprattutto quella rivolta ai piccoli, legata indissolubilmente all’obiettivo di farli giungere alla Prima comunione con relativa e immancabile festa? Come si può alleggerire questo peso che incombe sui catechisti, anche quelli degli adulti, per consentire loro di dedicarsi con più impegno alla evangelizzazione?
Anzitutto è da sottolineare che il Direttorio sottolinea quanto la catechesi non possa ridursi solamente a quella rivolta ai bambini, specialmente in vista della ricezione dei sacramenti. La catechesi, quindi, è da unire intimamente all’opera di evangelizzazione e non ne può prescindere. Ha bisogno di assumere in sé le caratteristiche stesse dell’evangelizzazione, senza cadere nella tentazione di diventarne un sostituito o di voler imporre all’evangelizzazione le proprie premesse pedagogiche. In questo rapporto, comunque, il primato spetta all’evangelizzazione non alla catechesi. È per questo che il Direttorio, alla luce di Evangelii gaudium, mette in evidenza una catechesi kerygmatica, come detto nella domanda precedente. La certezza dell’amore, quindi, impone l’esigenza della conoscenza. Il richiamo agostiniano di questa idea è facilmente verificabile. Per la catechesi, comunque, ciò comporta una conseguenza di inestimabile valore pedagogico, quale il rimando all’amore come forma di conoscenza. Se si considerano le tre parti in cui questo Direttorio è strutturato, si potrà facilmente costatare come il primato dell’evangelizzazione e la conoscenza per amore sono felicemente recepite come criteri fondativi dell’intero percorso catechistico. Insomma, non si può dimenticare che nel momento in cui si fa catechesi si sta già facendo opera di evangelizzazione perché si trasmette la fede.
Il Direttorio indica due strade con riferimento alla catechesi dei più piccoli: l’identificazione con una sorta di obbligo scolastico e la mentalità per cui la catechesi serve a ricevere il sacramento. (Esempio evidente la cresima chiesta per fare da padrini o per sposarsi). Questi vincoli servono ancora o sarebbe meglio una maggiore libertà, preferendo chi sul serio li desidera magari a discapito di chi ne fa un obbligo formale?
Nel Direttorio troviamo vari ostacoli che, presenti nella mentalità comune, rallentano e penalizzano il processo della catechesi. Il primo, lo si può identificare proprio nello schema scolastico, secondo il quale la catechesi dell’Iniziazione cristiana è vissuta sul paradigma della scuola. La catechista sostituisce la maestra, all’aula della scuola subentra quella del catechismo, il calendario scolastico è identico a quello catechistico… Il secondo, è la mentalità secondo la quale si fa la catechesi per ricevere un sacramento. È ovvio che una volta terminata l’Iniziazione si crei il vuoto per la catechesi. Un terzo, è la strumentalizzazione del sacramento a opera della pastorale, per cui i tempi del sacramento della Confermazione sono stabiliti dalla strategia pastorale di non perdere il piccolo gregge di giovani rimasto in parrocchia e non dal significato che il sacramento possiede in se stesso nell’economia della vita cristiana. Il Direttorio, in merito a questo, afferma che è urgente compiere la “conversione pastorale” per liberare la catechesi da alcuni lacci che ne impediscono l’efficacia. Per poterlo fare, sottolinea il legame tra evangelizzazione e catecumenato, nelle sue varie accezioni (cfr. n. 62) e, sulla scia di questo, parla di una “catechesi di iniziazione alla vita cristiana” ed offre una via per uscire da questi lacci: “un itinerario pedagogico offerto nella comunità ecclesiale che conduce il credente all’incontro personale con Gesù Cristo attraverso la Parola di Dio, l’azione liturgica e la carità, integrando tutte le dimensione della persona, perché cresca nella mentalità di fede e sia testimone di vita nuova nel mondo” (n. 65).
Non pensa che anche la dimensione territoriale della parrocchia oggi venga meno? Alla mobilità tradizionale tra un paese e l’altro, si aggiunge anche quella quotidiana, tra un quartiere e l’altro? Come si deve configurare il futuro delle nostre parrocchie? Nel Direttorio si cita Giovanni Paolo II che parlò di comunità di comunità. Oggi questo cosa può significare?
In un mondo globale e di scambi come il nostro, credo che non dovrebbe essere un problema la territorialità e la giurisdizione sui fedeli delle singole parrocchie. Tuttavia, pur nella libertà di scelta, anche dovuta alle necessità della vita ordinaria, credo sia importante che ogni fedele possa avere una comunità cristiana di riferimento, nella quale vivere la celebrazione eucaristica e crescere nella fede. La partecipazione alla santa Eucaristia domenicale, infatti, è certamente per i credenti il momento culminante della loro esperienza comunitaria. Allo stesso modo, inoltre, il momento della catechesi permette di vivere ugualmente questa esperienza. La catechesi, infatti, si esplicita al meglio là dove è vissuta come momento comunitario e dove nella condivisione della stessa fede i credenti si aiutano l’un l’altro a vivere di essa e a testimoniarla dove sono chiamati ogni giorno con la loro esistenza familiare e professionale. Pur paradossale che possa sembrare, anche lo studio privato della fede è sempre un atto comunitario. La nota dell’ecclesialità che segna, ad esempio, la ricerca teologica, appartiene anche alla catechesi. Certo, è sempre un bene che la catechesi permetta di vivere direttamente l’esperienza comunitaria. Lo studio in piccoli gruppi è auspicabile perché in questo modo ognuno può sentirsi non solo più direttamente coinvolto, ma anche provocato alla condivisione. L’intelligenza di quanto si sta studiando, infatti, ha bisogno di essere partecipata e confrontata con quella degli altri e, in questo modo, la ricchezza dell’esperienza di fede si accresce. In ogni caso, anche quando il catechismo viene letto e studiato da solo, il credente percepisce subito che si trova in presenza di un contenuto che va oltre sé stesso perché è la fede stessa della Chiesa.