Imam Mustafà Boulaalam, viviamo in un carcere colorato

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In occasione del 40° anniversario della ordinazione sacerdotale di don Carmelo Vicari, parroco di Sant’Ernesto a Palermo è stato editato un libro dal titolo: “Don Carmelo Vicari. Parroco a Palermo” nel quale sono state raccolte testimonianze e interviste sul suo parroccato. Pubblichiamo l’intervista rilasciata nell’occasione da Mustafà Boulaalam, Imam della Moschea di Piazza Gran Cancelliere a Palermo

Di Francesco Inguanti

A quando risale il tuo primo incontro con don Carmelo Vicari?

In occasione di un pranzo organizzato da un comune amico per farne la conoscenza nel 2018.

E qual è stata la prima impressione?

Innanzitutto l’accoglienza. Mi ha considerato subito come un “ospite grande”, a cui aprire la sua casa. Noi apriamo la casa a coloro che amiamo. E lui mi ha subito dato questa sensazione. Così è iniziata la nostra amicizia.

E come è proseguita?

Dopo aver manifestato il desiderio di venirmi a trovare in Mo­schea, l’ho invitato per la conclusione del Ramadan proprio in Piazza del Gran Cancelliere. Il Ramadan è per noi il mese sacro, quindi la sua venuta è stata particolarmente significativa.

Cosa è accaduto quella sera?

Piccole e semplici cose. L’ho presentato ai miei amici musul­mani e gli ho chiesto di dare un saluto prima di consumare alcuni prodotti tipici della nostra cucina.

Ricordi cosa ha detto?

Poche parole per dire delle relazioni tra musulmani e cristiani. Ci siamo incontrati su alcuni punti di riferimento comuni, ma anche su alcuni aspetti fondamentali delle nostre religioni. Ed

anche i presenti sono stati molto colpiti, perché dopo mi hanno chiesto chi fosse e perché avesse detto quelle cose importanti anche per loro.

Come è proseguito il vostro rapporto?

In quella occasione mi ha parlato tra l’altro anche del Banco Alimentare e dell’aiuto che da esso avremmo potuto ricevere. Così ho preso contatto con i responsabili locali e abbiamo avu­to un significativo sostegno perché nel frattempo sono scattati i problemi della pandemia e anche la nostra comunità ne ha sofferto. E a conclusione del primo Lockdown ci siamo incon­trati nuovamente.

Dove è avvenuto l’incontro e di cosa avete parlato?

È tornato in Moschea e ci siamo confrontati su come ciascuno ha affrontato i problemi derivanti dalla impossibilità di incon­trare le persone, io in moschea lui in parrocchia, sull’aiuto che abbiamo saputo offrire alle famiglie e sulla speranza da tene­re viva, pur in un momento di così grande difficoltà. Questi piccoli e significativi gesti hanno approfondito molto la nostra amicizia. È come l’esempio dell’albero e della raccolta della frutta.

Cioè?

Mi riferisco a quanto accade ad ogni contadino. Per prima cosa pianta l’albero e poi verifica la bontà dell’azione fatta dalla rac­colta del prodotto. E così è stato tra me e lui. Il frutto dell’albero è la nostra amicizia.

Mi dai un giudizio più complessivo sulla sua persona?

Don Carmelo mi sembra la persona giusta al posto giusto. Ho la certezza che Dio ama me, come ama lui.

E come potrà proseguire questa amicizia?

Questi ultimi anni sono stati segnati dalla pandemia. Ma mi auguro che molto presto potremo mettere in campo anche dei progetti comuni per le nostre comunità, così da consentire una conoscenza e una amicizia che superi le nostre due persone. Purtroppo, però, mi sembra che in questo momento viviamo come in un carcere colorato.

Cosa vuoi dire con questa frase?

Che in questo momento per fare qualunque cosa serve il per­messo, cioè bisogna rispettare regole e obblighi cui non possia­mo opporci. Siamo in un carcere, però colorato perché appa­rentemente va tutto bene e non ci rendiamo conto della fatica

che dobbiamo fare per vivere una vita normale.

E cosa si può fare allora?

Talvolta basta poco, cioè aiutare le persone moralmente; mo­ralmente significa sostenere il morale, lo spirito e quindi la spe­ranza della gente, che è la cosa maggiormente in pericolo. E questo mi avvicina ulteriormente alla persona di don Carmelo.

In che senso?

Siamo entrambi responsabili di una comunità umana, di cui dobbiamo sostenere lo spirito, che vuol dire il rapporto con Dio. Questa responsabilità viene prima di tutte le altre e aiuta a fare bene tutto il resto. Per questo chiedo a Dio che aiuti me e lui a portare avanti bene questa responsabilità.

Qual è l’aspetto più concreto di questa responsabilità che vi unisce?

Aiutare il prossimo. Quello che il cristianesimo chiama carità.

E nell’Islam come si chiama?

La parola più vicina è Zakat. Il termine coranico Zakat non tro­va nessun equivalente in nessun’altra lingua. Non è una forma di elemosina o di carità, né una mera tassa o imposta. Né si tratta semplicemente di una manifestazione di amabilità: è tutte queste cose combinate insieme ed è molto di più. Non si tratta semplicemente di dare qualcosa a chi ha bisogno sottraendola alle proprie disponibilità o ricchezze, ma di un abbondante arricchimento, di un investimento spirituale. Ecco perché carità è un termine che si avvicina molto.

In che senso?

Nel senso che mette insieme sia l’aspetto materiale dell’aiuto per chi lo riceve che quello spirituale per chi compie l’azione. A tal proposito il Profeta dice che la “carità” è un obbligo per ogni musulmano, e colui che non ne ha i mezzi deve fare una buona azione o evitare di commetterne una sbagliata. Questa è la sua concezione di carità.

Puoi essere ancora più chiaro?

Zakat ricorda ai musulmani che tutto quello che hanno appartiene a Dio. La ricchezza che è stata data alle persone è come una fiducia che viene da Dio, e zakat libera i musulmani dall’amore per il denaro. Il denaro pagato in zakat non è qual­cosa di cui Dio ha bisogno. Egli è al di sopra di qualsiasi tipo di dipendenza. Dio, nella Sua infinita misericordia, promette di ricompensare coloro che aiutano i bisognosi, ad una condizio­ne di base, che la zakat venga data in nome di Dio.

Quindi nessuna ipotesi di contraccambio?

Non ci si deve aspettare o richiedere nessun profitto mondano da parte dei beneficiari, né avere lo scopo di farsi un nome di benefattore. I sentimenti di un beneficiario non devono essere feriti, non bisogna farlo sentire inferiore o ricordandogli l’assi­stenza fatta in suo favore. Credo che questo spirito unisca me e don Carmelo nel profondo del nostro ministero.

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