Luigi Maria Epicoco: davanti ai ragazzi di oggi bisogna stare con gratuità

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di Francesco Inguanti

Don Luigi Maria Epicoco, teologo, assistente ecclesiastico del Dicastero vaticano per la Comunicazione ha preso parte alla presentazione al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini del libro: “Alle radici di una storia”, un libro antologico che raccoglie scritti, riflessioni e pensieri del fondatore di Comunione e Liberazione di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Gli abbiamo posto alcune domande.

Don Luigi, lei dedica gran parte del suo impegno ai giovani. Ci aiuta a capire come sono fatti oggi, perché sono così problematici?

I giovani non sono un problema da risolvere. Dipende purtroppo da una questione culturale che ci portiamo dietro da tempo: quella di vedere sempre in maniera problematica la precarietà della giovinezza che invece, proprio per sua natura, è precarietà, è domanda, è apertura alla vita, è fallimento, è desiderio, è angoscia, insomma: è vita.

Ma il contesto in cui viviamo ha con sé grandi problemi.

In questo momento storico una delle questioni fondamentali deriva dal fatto che questo sguardo problematico che noi abbiamo nei loro confronti forse ha generato dentro di loro una grande insicurezza, che si portano come una paura di sbagliare, una paura di decidere, una paura di osare la vita.

E qual è la conseguenza?

Di conseguenza tentano di cercare più qualcosa che li rassicuri, una appartenenza che non li spinga in avanti, ma che li protegga. Tutte le agenzie educative, compresa la famiglia, pensano che la cifra più alta dell’amore sia la protezione; ed invece è la fiducia che è il modo con cui spingere in avanti le persone, per invitarle ad osare.

Ma c’è anche il contesto informatico e tecnologico in cui vivono e da cui dipendono.

Certo un’altra questione è l’alfabeto attuale. Ogni epoca storica ha avuto i suoi alfabeti antropologici. Noi viviamo adesso nell’epoca della globalizzazione, di alcuni mass media, dei social, e anche in questo caso per molto tempo abbiamo utilizzato un atteggiamento non benedicente nei confronti del virtuale; ma polemizzare nei confronti della vita social, della vita virtuale, ha fatto sì che non abbiamo mostrato anche il bene che può essere nascosto al loro interno e nel loro uso.

Ad esempio?

Ad esempio il fatto che la vita virtuale può ampliare le nostre relazioni. Ma attenzione non deve sostituire i rapporti reali di cui invece può essere un megafono, cioè può creare delle connessioni che possono diventare poi delle vere e proprie relazioni.

E quindi come usare questi strumenti?

Innanzitutto non sono strumenti che dobbiamo chiudere o che non dobbiamo utilizzare, ma strumenti al cui uso dobbiamo educarci. Faccio un esempio. In fondo, a pensarci bene che cos’è la medicina? È il tentativo di guarire le persone da una malattia e i medici lo fanno attraverso le medicine, che sono dei veleni dosati. Però se diciamo ad una persona che deve assumere un veleno dosato, ci pensa due volte prima di farlo. Invece, se la chiamiamo medicina, la assume con serenità. Dunque, ci sono delle cose che se utilizzate nel modo giusto possono portare un beneficio ed invece cose che se usate nel modo sbagliato possono provocare danni. In definitiva si tratta non di educare a come vivere in maniera giusta o sbagliata

Di fronte a questo quadro qual è la responsabilità della Chiesa?

Io credo che dovremmo raccogliere di nuovo la testimonianza di don Luigi Giussani, perché in fondo lui ha cominciato a far questo di cui parliamo. Infatti, non è partito da una pianificazione. Purtroppo siamo abituati ad una Chiesa che pianifica, ma questa pianificazione può essere anche un modo per staccarsi dalla realtà. Bisogna invece rivolgere la parola alla realtà.

Può essere più chiaro?

Giussani ha cominciato a dare del tu alle persone, a quelle che gli stavano intorno. Io mi domando se siamo una Chiesa che fa questo. Cioè una Chiesa di adulti che ascoltano, che entrano non in modo interessato in relazione con i giovani che vogliono per forza portare dalla loro parte. Questi ragazzi hanno qualcosa che noi possiamo tornare a scoprire, ad intendere anche se ci rimettiamo di nuovo dentro un rapporto reale con loro. Una Chiesa che fa questo è una Chiesa che si lascia evangelizzare dalla realtà che non vuole portare il Vangelo come una dottrina o una posizione culturale da applicare alla realtà.

Cosa può aggiungere sulla personalità di don Giussani?

Sono tra quelli, che non l’hanno potuto guardare negli occhi o stringergli la mano, ma posso dire di averlo incontrato attraverso la contaminazione degli amici che erano intorno. Era un uomo in cui ha agito il carisma grazie all’esperienza dello Spirito. Un uomo non incasellabile, che continua a stupirci con il suo pensiero. La sua priorità educativa era l’ascolto di chi aveva accanto, senza correre subito all’ansia della risposta.

Tutto questo che rilievo ha rispetto al metodo da utilizzare?

Il discorso sarebbe lungo, scelgo l’aspetto che ritengo decisivo, quello della gratuità. Tutto dipende dalla gratuità con cui si sta davanti a questi ragazzi, lì dove e quando abbassano le difese e aprono il loro cuore, perché capiscono che l’aiuto che diamo loro non è interessato, ma disinteressato. Gratuità è voler bene e basta, senza dare loro l’impressione di volerli tirare dalla nostra parte o di indottrinarli. Che cos’è l’esperienza dell’amore se non l’esperienza di incontrare un amore gratuito che agli occhi del mondo sembra incomprensibile? Vorrei citare un esempio illuminate del Vangelo a tal proposito

Prego.

L’episodio dell’uso del profumo per ungere i piedi di Gesù. Non dobbiamo dimenticare l’espressione che Giuda usa nella circostanza di fronte a quello che ritiene uno speco. Dice: “Potevamo venderlo e darlo ai poveri”. La motivazione è fortissima ed è inoppugnabile, ma Gesù la contesta perché quello che a Giuda appare uno spreco poi in realtà è gratuità. Non dobbiamo avere paura con i ragazzi di sprecare il tempo, di sprecare la nostra vita con loro, cioè di offrirla, di donarla gratuitamente, senza più la preoccupazione di contarci e contare, di andare a pensare cioè che i frutti sono costituiti dai risultati. I frutti, ci insegna la Parola, sono i frutti dello Spirito, cioè gioia, pace, benevolenza, mitezza, dominio di sé. Quando una Chiesa testimonia queste cose non è più una questione di numeri, è il lievito che fermenta tutta la pasta. Allora dobbiamo tornare a questo e toglierci di dosso l’ansia da prestazione, che noi continuiamo ad avere perché non siamo più la massa dei credenti, ma siamo un piccolo resto. Ma basta leggere gli Atti degli Apostoli per capire che un piccolo resto ha incendiato il mondo. Perché non potrebbe di nuovo accadere oggi?

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