Don Pino Vitrano “La mia quarantena in Via Decollati”

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di Francesco Inguanti

Recarsi oggi alla Missione di Speranza e di Carità fondata da Biagio Conte fa un certo effetto. La sede di Via Archirafi è praticamente blindata. L’accesso è consentito solo dal portone in ferro di Via Tiro a segno. I volontari aprono uno spioncino e verificano: chi viene per donare, (cibo, viveri ed altro), è invitato a lasciarlo fuori. A chi viene per chiedere (alimenti, vestiti, e sostegno di vario genere) si fissa un appuntamento, rispettando poi tutte le precauzioni sanitarie necessarie, con i volontari o con don Pino Vitrano. Tutti indossano rigorosamente la mascherina e il gel per le mani è ben visibile in ogni angolo. Lo stesso può dirsi della struttura di Via Decollati. All’interno regna un silenzio surreale. Non si vedono più i fratelli ospitati che prima si aggirano per i viali. Quelli ancora presenti passano gran part della giornata, nelle loro stanze. In ogni ingresso vi sono cartelli in più lingue che ricordano le norme igieniche da rispettare.

Biagio Conte, che ha interrotto il suo pellegrinaggio nei paesi europei causa Corona virus è tornato a Palermo, ma è salito in montagna a pregare e digiunare.

Don Pino Vitrano, dopo la quarantena fatta in Via Decollati è tornato “a casa”, in Via Archirafi e ha ripreso la sua normale attività. Non ha perso il sorriso e la bonomia, ma si comprende subito che ha vissuto una esperienza dura, faticosa, “ma significativa – come ci tiene subito a precisare”.

Ha accettato l’invito a raccontare il significato e le conseguenze di quei quasi trenta giorni trascorsi nella struttura di Via Decollati ed inizia subito con la serenità che non è venuta meno, mentre la barba è visibilmente allungata.

“Tutto quello che è successo – comincia – ha un significato positivo. Se all’inizio in apparenza tutto sembrava negativo, col trascorrere dei giorni due cose sono risultate chiare. La prima è la possibilità che è stata data a tutti e a me più di tutti di utilizzare quel tempo per riflettere e comprendere cosa il Signore volesse chiedermi personalmente e il cambiamento che chiedeva alla Missione”.

E a quali conseguenze è giunto?

Devo dirlo francamente: la mattina in cui i responsabili dell’ASL mi hanno detto che non potevo più uscire dalla struttura di Via Decollati, ho avuto una reazione stizzosa. Ritenevo indispensabile, viste le difficoltà che ci attendevano, tornare “sul ponte di comando” che per me è Via Archirafi.

Ed invece?

Riflettendoci su e pregando molto ho capito che quello era il luogo più bisognoso in quel momento per cui il Signore mi ha voluto lì e mi ha bloccato lì. Ho pensato ad una scena famosa del film Quo Vadis. Quella in cui mentre Roma brucia, per l’incendio appiccato da Nerone, San Pietro scappando per salvarsi dalle fiamme, incontra Gesù, al quale chiede: “Domine, quo vadis?”, cioè “Signore, dove vai”? E Gesù gli risponde, “Eu Romam, iterum crucifigi”, cioè “Vado a Roma, per essere crocifisso una seconda volta”. Pietro capisce che deve tornare a Roma e non sottrarsi alla morte. A me non è stato chiesto di morire, ma di stare con quei fratelli dai quali forse inconsciamente volevo fuggire”.

E le conseguenze personali?

Ho imparato sulla mia pelle e non per averlo ripetuto agli altri, che non bisogna perdere la fiducia, la speranza perché se è vero che tutto è opera di Dio, questo è il momento di dimostralo. Dio non vuole il male, non ha inventato il virus, lo ha permesso, permette che tutto ciò accada per un perché”.

E quale?

Perché se siamo convinti sul serio, non a parole, che tutto quello che è stato fatto finora, nel mondo e nella nostra vita, è opera Sua, perché è Lui che ci mette in testa i progetti con cui noi poi costruiamo, allora è chiaro che proprio nel momento del nubifragio, della bufera, tutto ciò si deve vedere, come per gli Apostoli sulla barca nel mare in tempesta. Sé è Lui che ha iniziato il viaggio, anche quando sembra tutto il contrario di quello che Lui aveva ideato, Lui può cambiare tutto in bene. Ma di questo ci si rende conto solo quando si è nella bufera, mai prima che accada. In fondo la bufera serve a questo: a far capire che senza di Lui siamo niente e con Lui possiamo continuare ad attraversare anche la tempesta del Coronavirus.

E la seconda cosa di cui parlava quale è stata?

La sensazione immediata dei primi giorni è stata strana, perché mi sembrava di essere stato bloccato a casa di amici, non a casa mia. L’occasione è stata preziosa, invece, perché ho apprezzato tanto di quel luogo, che fino a quel momento non avevo apprezzato, per vari motivi.

E cioè?

Vivendo gomito a gomito con quei fratelli, ho compreso come a volte “non si sanno prendere”, non sappiamo dialogare bene, con loro cioè non li consociamo abbastanza. Ci accontentiamo di avere i dati anagrafici fondamentali e di dare i servizi essenziali per l’accoglienza: un pasto e talvolta un letto. Devo precisare che al contrario i fratelli accolti lì si sentono un po’ come a casa loro, almeno quelli che vi rimangono più a lungo.

E tutto ciò da cosa dipende?

Negli ultimi anni l’assenza di fratello Biagio da quella struttura, ha contribuito a sfilacciare i rapporti e a farne più un luogo in cui si erogano servizi, che non un luogo di accoglienza. Inoltre sono aumentati di numero quelli che vengono solo per il pranzo o la cena e poi vanno via. La loro permanenza assomigliava più a un bivacco piuttosto che a un abitare. Si è creata la convinzione che in quel luogo tutto si poteva fare, proprio perché mancava una autorità morale in grado di dettare regole condivise. Si aggiunga che in particolari momenti di emergenza l’alto numero dei presenti rendeva difficile i rapporti interpersonali.

E in positivo tutto ciò cosa le ha insegnato?

Conoscere direttamente e meglio i fratelli ospitati mi ha consentito di prendere atto che le difficoltà comportamentali di cui soffrono dipendono quasi sempre dalle dure prove di detenzione e di violenza subite, soprattutto in Libia in attesa di imbarcarsi; ma anche durante le traversate che in molti casi si sono accompagnate alla morte di tanti di loro familiari ed amici.

Quindi la tipologia di questi immigrati è cambiata?

Sono cambiate le condizioni e quindi anche le persone. Negli anni scorsi giungere in Sicilia era come raggiungere la terra promessa, anche se poi molti proseguivano il viaggio verso il nord Europa. Adesso lo sbarco sulle nostre coste non chiude una fase, per quanto brutta della loro vita, ma ne prosegue lo strazio perché non trovano più né un Paese né delle strutture in grado di accoglierli. Sono stranieri in terra straniera. E questo provoca enormi e nuove difficoltà nel modo di rapportarsi con la città, le sue istituzioni e tutti i suoi abitanti.

Può essere più chiaro?

In poche parole: questa condizione più dura li rende più cattivi e talvolta incapaci di controllare le loro reazioni di fronte a nuove difficoltà. Sono più chiusi in sé stessi ed in più hanno trovato una forte indifferenza, se non ostilità nella gente del luogo, in questo caso i palermitani, che prima non c’era. Purtroppo spesso tutto ciò li porta a vivere una condizione di depressione.

Allora siamo di fronte a forme patologiche, o no?

Anche, certamente. Ho capito che adesso vanno seguiti da una equipe di medici in grado di intervenire in modo scientifico. Ma risulta decisivo l’anello costituito da coloro che possono fungere da tramite tra loro e il personale medico, perché non solo non conoscono bene la nostra lingua, ma non hanno più fiducia nel prossimo, figuriamoci quando esso indossa il camice bianco di un medico.

E cosa può fare la Missione?

La Missione può in tal senso contribuire in modo significativo e qualificato, perché è un luogo accogliente, stabile, gestito da persone e volontari con esperienza e vi è una pluralità di etnie con cui queste persone possono avere più contatti e rapporti fiduciari.

A suo giudizio che percezione hanno avuto i vostri ospiti di tale situazione?

La chiusura dei cancelli improvvisa e senza preparazione a molti ha ricordato i traumi subiti in Libia ove la privazione della libertà era stata accompagnata da una dose notevole e continua di violenze fisiche. Il giorno prima della chiusura iniziai e tentai di parlare con tutti, ma le reazioni furono molto violente. Non parliamo poi dopo la chiusura totale. La scelta di farmi collaborare da un gruppo ristretto di persone scelte da loro si è rivelata la carta vincente. Non solo perché riportavano correttamente nella loro lingua le indicazioni che io davo, ma perché si sono resi per prima loro corresponsabili di una situazione che altrimenti poteva ulteriormente degenerare

E a quali decisioni concrete siete giunti?

Da questa vicenda ho compreso la necessità di avvalermi per la gestione dell’emergenza quotidiana di un gruppo di circa dieci persone, rappresentative delle etnie più numerose e attraverso loro raggiungere tutti gli altri che altrimenti continuavano a non comprendere il perché di tante restrizioni. Ma prima di giungere a questa soluzione vi sono stati giorni di tensione perché innanzitutto io e poi il personale dell’Asp veniva visto come loro nemico.

 

Come avete trascorso quelle settimane?

In quei fatidici quasi trenta giorni non ci hanno consentito neppure di cucinare. I pranzi ci venivano portati da fuori, dalla Caritas in particolare, che aveva ricevuto l’incarico dal Comune. Abbiamo messo molto impegno a ristrutturare locali interni e spazi esterni. Dopo la fase di zona rossa anche il Banco Alimentare ci ha portato derrate, perché a quel punto abbiamo potuto riaprire le cucine. Attualmente ospitiamo poco più di 150 fratelli. Abbiamo fatto un preciso censimento dei presenti, abbiamo adottato tutte le misure che ci venivano indicate, trasformando le camerate in stanze con max 6 persone, diminuendo i posti a mensa, responsabilizzando tutti nella pulizia personale e degli spazi comuni.

E adesso?

Quanti rimangono in Via Decollati sono in grado di autogestirsi e posso dire a distanza di più di un mese che adesso sono tutti più responsabili e attenti. Adesso è chiaro a tutti che non possono creare motivi di attenzione di tutte le istituzioni perché questo porterebbe alla chiusura della struttura. L’autogestione ha fatto loro scoprire il valore della responsabilizzazione.

Come avete tenuto i rapporti con l’esterno?

Fondamentalmente attraverso il telefono. Le telefonate sono state tantissime, molte anche dalla Sicilia e dall’Italia. Anche tanti istituti religiosi si sono uniti a noi attraverso la preghiera. In queste circostanze se ne comprende meglio il valore. Ricordo un momento molto bello a tal proposito.

Ce lo racconti

Ad inizio ottobre c’è stato in incontro dei sacerdoti del Vicariato cui non ho ovviamente potuto partecipare. Tramite il telefono ho letto un messaggio in cui ho raccontato che stavamo affrontando in quelle settimane una delle prove più difficile della nostra Missione, anche per dimostrare che i fratelli che accogliamo non sono la causa del virus e della sua trasmissione. Ho illustrato i cambiamenti che stavano avvenendo nella struttura, ma soprattutto nei rapporti tra noi e della necessità di avere nei confronti dei nostri ospiti lo stesso rispetto che si ha per tutti gli uomini. E poi ho concluso che il virus non ci può togliere la comunione nello Spirito di Dio né farci vivere di paure, se affrontiamo tutto con fede profonda e sincera. Ho finito con dire che avevo scelto liberamente di rimanere in Via Decollati dove sono i fratelli più provati e con loro trovavo grande conforto perché qualunque cosa poteva ancora accadere saremo sempre stati pronti ad affrontare tutto con amore e dedizione verso loro, perché sono quelli che ci fanno toccare la carne di Dio visto più da vicino.

In definitiva quali conseguenze si possono trarre da questa vicenda?

Questa vicenda insegna che tutto arriva attraverso i disegni di Dio e secondo la loro maturazione. Per esempio ci ha consentito di incontrare i volontari di “Medici senza frontiere” che hanno fatto degli interventi quando eravamo in zona rossa soprattutto per i malati, non di Covid ovviamente. Inoltre i volontari della Croce Rossa ci stanno dando una mano per la cartellonistica; stanno cioè inserendo tutti gli avvisi necessari per rispettare ogni regola sanitaria. Con queste due associazioni abbiamo iniziato a progettare e realizzare quanto ancora resta da fare per rendere ogni ambiente sicuro e accogliente. A conclusione di questa operazione contiamo di avere in Via decollati 200 posti letto, potremo dire: tutti a norma.

E quando saranno tutti occupati?

Saturata quella disponibilità non potremo accogliere altri. Quando si diceva prima che accoglievamo 700 o 800 persone si faceva riferimento ai pasti erogati e quindi ai tanti che venivano solo per il pranzo o la cena. Ora potremo dare accoglienza anche a loro, purché regolarmente registrati e conosciuti, ma anche i posti a tavola sono diminuiti proprio per rispettare le distanze.

E quindi quante persone sono rimaste in Via Decollati?

Attualmente ospitiamo poco più di 150 fratelli. Molti sono andati via già prima della dichiarazione di zona rossa. Molti hanno preferito ritornare nei paesi di origine, soprattutto quelli dell’est Europa, con la speranza di evitare il contagio e con la certezza di essere curati meglio in famiglia. Altri hanno raggiunto altre regioni italiane in cerca di lavoro. Quindi adesso non c’è molta pressione, non ci sono richieste di accoglienza. Dovremo però pensare che ben presto in molti torneranno a bussare al nostro cancello e dovremo spiegare preventivamente che molte regole sono cambiate.

E queste novità riguardano solo le strutture ubicate a Palermo?

In quelle di Palermo abbiamo compiuto i più importanti lavori di ristrutturazione e adeguamento sanitario. Ma in questi mesi abbiamo lavorato anche in quelle fuori Palermo, quelle a vocazione agricola. Per esempio in quella di Tagliavia abbiamo avuto modo di completare una cappella che non c’era mai stato modo di impiantare.

E fratello Biagio?

Ci segue a distanza soprattutto con la preghiera e posso dire che in questi momenti è particolarmente utile e necessaria?

 

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