Toti Amato: sono i comportamenti che fanno la differenza anche nella sanità. Nel riconquistare un nuovo equilibrio tra socialità e lavoro non si potrà prescindere dal fattore umano.

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di Francesco Inguanti

Nei giorni scorsi si è svolto il Meeting di Rimini, quest’anno con una formula nuova che ha visto un uso massiccio della comunicazione via etere che ha consentito in oltre 150 città d’Italia di assistere alle iniziative svoltesi a Rimini. A Palermo tutto ciò è accaduto a Villa Magnisi, sede dell’Ordine dei Medici. Nell’occasione abbiamo incontrato Toti Amato, presidente dell’Ordine, a cui abbiamo rivolto alcune domande sulla attuale situazione della sanità siciliana.

Se è lecito trarre qualche prima considerazione sulla vicenda coronavirus in Sicilia, quali sono stati a suo avviso i punti di forza del nostro sistema sanitario regionale?

Il senso di responsabilità dei professionisti e dei cittadini è stato certamente il punto di forza. Le risposte sono state pronte, soprattutto in tempi di lockdown. Da una parte, l’esperienza del Covid19 ci ha insegnato l’efficacia del lavoro di gruppo delle task force per gestire l’emergenza, dall’altro l’efficacia dell’approccio responsabile dei cittadini, che hanno capito bene la buona pratica dell’isolamento per contenere il contagio.

E quelli di debolezza?

I punti deboli purtroppo sono stati e restano tanti, dalla mancanza di personale medico e sanitario all’insufficienza dei dispositivi di protezione individuale, non all’altezza a garantire la loro sicurezza, soprattutto all’inizio della pandemia, fino alle informazioni poco chiare e strutturate. Troppi professionisti sono morti di Covid. Anche se in generale il sistema sanitario in qualche modo ha retto, l’enorme affanno ha reso chiara l’urgenza di investimenti sui territori su risorse umane e tecnologiche, in particolare nella telemedicina e nella medicina generale.

Come ha contribuito il “fattore umano”, medici, paramedici, ecc. nell’affronto di quella che in ogni caso è stata una emergenza straordinaria?

Nonostante se ne sia parlato pochissimo, in assenza di parametri clinico-assistenziali codificati è stato un elemento determinante per contenere la diffusione dei contagi. Anche per il futuro, sono i comportamenti che fanno la differenza. La pandemia è ancora in corso e in un nuovo equilibrio da riconquistare tra socialità e lavoro non si potrà prescindere dal fattore umano.

Che rapporto professionale c’è stato tra i tanti “sistemi” distribuiti sul territorio? Sono riusciti a dialogare tra loro?

Gli ospedali purtroppo lavorano ancora oggi come dei silos, in Sicilia come nel resto d’Italia. L’intero sistema sanitario nazionale va riprogrammato: la chiave è l’integrazione ospedale-territorio. Solo in questo modo si potrà offrire la migliore cura, evitando anche sprechi di tempo e risorse. Non si lavora da soli, soprattutto chi deve garantire salute. È necessario fare rete per qualsiasi patologia, in tempi di pandemia diventa un imperativo.

E con le altre regioni che scambio di esperienze e conoscenze c’è stato? Di tutto ciò si può trarre vantaggio?

Dall’inizio dell’emergenza sanitaria gli Ordini dei medici siciliani hanno fatto subito rete. La Sicilia è stata la prima regione italiana ad attivare il progetto ministeriale di biocontenimento “Health Biosafety Training, realizzato nell’ambito dei fondi del Piano nazionale sanitario in collaborazione con Mds, assessorato regionale della Salute, Omceo Palermo, Arnas Garibaldi di Catania, Asp di Ragusa e Trapani. Abbiamo fatto la nostra parte, formando tutti i soggetti coinvolti nella gestione dell’emergenza da Coronavirus: circa 5000 discenti tra medici e professionisti della sanità, oltre il personale della Polizia, dei Carabinieri Nas, della Guardia di finanza, Guardia costiera e Capitaneria di porto, e i medici Usmaf del territorio. In una seconda fase abbiamo coinvolto anche i dirigenti della Regione e i coordinatori ed elicotteristi del 118.

 Fin dall’inizio si è scatenata una conflittualità tra centro e periferia, tra regioni e governo che ha fatto emergere non poche difficoltà. A suo avviso come sono andate le cose e come pensa si possa procedere in futuro?

In un momento di pandemia globale è necessaria una cornice di direttive nazionali per la presa in carico dei pazienti condivisa in tutto il Paese, ma nel rispetto dei diversi bisogni espressi dai territori, dove il primo presidio del Ssn resta il medico di famiglia. Per questo, sono convinto che per il futuro sviluppo della telemedicina, dei servizi socio-assistenziali territoriali e investimenti tecnologici a sostegno di una rete interforze regionale e nazionale siano gli elementi prioritari di una sanità strategica ed adeguata al benessere dei cittadini. Mi auguro condivise e realizzate dalle istituzioni dalla politica e dalle istituzioni preposte.

Ci sono le condizioni perché si torni ad una gestione ordinaria della sanità?

Come sappiamo, rispetto agli altri Paesi europei il nostro Ssn è sotto finanziato. I tagli sciagurati di posti letto e personale decisi dalla politica negli ultimi vent’anni hanno causato, tra i tanti nodi, lunghe liste di attesa sia per i ricoveri che per le visite ambulatoriali. Nonostante sprechi, difficoltà e malaffare, la sanità pubblica italiana rimane un baluardo di civiltà, ma la responsabilità medica finisce dove iniziano le inefficienze dell’intero sistema. Recuperare le attività sanitarie rimandate richiede un grande sforzo, potrà essere mitigato dall’impegno della politica e da una distribuzione mirata delle risorse.

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