L’epidemia: un’occasione di crescita personale e comunitaria

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di Francesco Inguanti

 Proseguiamo oggi le interviste pubblicando quella di don Carmelo Russo parroco di Santa Maria Addolorata di Capo Milazzo. La Parrocchia dell’Addolorata è una piccola comunità (1200 fedeli) che insiste sul promontorio di Capo Milazzo.

Don Carmelo da oltre un mese anche la sua parrocchia è “chiusa”. Che effetto le fa vedere non solo la chiesa, ma soprattutto i locali parrocchiali privi di bambini e adulti? 

L’effetto che penso faccia a tutti: disorientamento e paura. Ma ho da subito accettato la situazione. Che altro prossimo fare? D’altra parte, un’autentica spiritualità cristiana deve sempre partire dalla realtà. Ce lo insegna l’incarnazione. Sto cercando di leggere l’epidemia anche come un’occasione di crescita per me e per la mia comunità cristiana. So bene che la valorizzazione di questo momento difficile non è un processo automatico per tutti.  Qualcuno, a ragione, fa più fatica di altri. Tuttavia, qualche segnale positivo si vede già, soprattutto quando si mette da parte la rabbia e si comincia a guardare le giornate da “novizi”, grati anche ai piccoli segnali di luce. Una cosa mi sembra ormai assodata: i sermoni sulla “pandemia utile” non convinceranno più nessuno se i credenti nel Risorto non testimonieranno risurrezione, anche recuperando un linguaggio evangelico sull’esperienza della morte e sul valore della sofferenza.

Che tipo di ausilio ha avuto dai mezzi di comunicazione (telefono e web innanzitutto) per continuare i rapporti con i parrocchiani? 

Nelle prime settimane non volevo sentire parlare di dirette Facebook. Poi mi sono dovuto adeguare anch’io, usando anche altre piattaforme che garantivano un minimo di interazione virtuale. È stato un atto di obbedienza ai miei parrocchiani. Ma la riscoperta di questi giorni di quarantena è stata la classica telefonata: sembra che sia diventata lo strumento più confidenziale per un rapporto personale con i parrocchiani.

C’è un settore che non può essere fermato: quello della carità. Come ha affrontato le problematiche che ne sono connesse? 

Le fornisco un dato, forse banale: il gruppo WhatsApp della Caritas parrocchiale è passato da sei a otto partecipanti in pochi giorni. C’è ancora molto da fare. Non è stato difficile coinvolgere il cuore della gente. Semmai, la difficoltà è organizzare e coordinare, cercando di dare futuro a questo slancio di generosità. Penso che ormai siamo alla “fase 2” anche della caritativa: passata l’urgenza alimentare, resta il problema delle utenze e degli affitti. La mia piccola parrocchia da sola non ha le forze per far fronte a questi nuovi bisogni. Occorre coordinarsi a livello di vicariato e stiamo provvedendo in tal senso. D’accordo lo slogan “la chiesa c’è”, ma serve anche che questa presenza sia risolutiva ed efficace, non dico per le imprese, ma almeno per le famiglie: è vero amore se è un “atto” d’amore.

L’esperienza del catechismo è continuata seppur a distanza? E come? 

Nel fine settimana registro un audio che invio ai genitori della catechesi. La domanda, però, resta: sta continuando una esperienza di fede? Penso ci sia una certa inflazione omiletica in giro sul web. Certamente la natura del mezzo mi obbliga a curare molto la comunicazione e i contenuti della predicazione… Questo è positivo. Forse ho dato poca attenzione ai bambini, ma credo che la didattica a distanza li stia già mettendo a dura prova… tante ore davanti ad uno schermo. Per questo ho preferito incoraggiare i genitori a diventare quel che in effetti sono, cioè i “primi catechisti” dei loro figli, ritagliandosi un’ora a settimana per una catechesi domestica. Non mi dispiacerebbe affatto se, anche dopo questa pandemia, restasse nella formazione cristiana un maggiore senso di corresponsabilità.

Come hanno vissuto queste settimane i suoi parrocchiani? L’appartenenza alla comunità cristiana della parrocchia come li ha aiutati? 

Come dicevo, il telefono diventa una “protesi” indispensabile al senso di appartenenza. Pensavo che il tempo si sarebbe espanso, invece le giornate sono ugualmente piene di conversazioni e “incontri” a distanza. Questo vale per me, ma anche per i miei parrocchiani. Io ho molta stima di loro. Sto imparando molto dalla mia gente, soprattutto grazie ai più anziani. Non condivido sempre le loro paure. A volte non condivido neppure le loro letture dei fatti. Ma lì dove ci separano i concetti, ci uniscono gli affetti, anche perché, all’atto pratico, li vedo davvero abili ad affrontare evangelicamente le assurdità di questi tempi. In noi preti sta venendo fuori un senso di paternità che forse era rimasto coperto dal ruolo. Allo stesso modo, vedo che anche i laici sono interpellati a mettere in gioco le loro prerogative battesimali e le loro responsabilità. Qualcuno di loro mi ha confidato che il “lavoro” che io starei facendo renderà più forte la nostra comunità. Io spero soltanto che non manchi mai il desiderio di Dio e della concretezza dell’incontro. Prima della pandemia, con i genitori dei bambini della catechesi avevamo iniziato un percorso di approfondimento della fede a partire dai cinque sensi. Che buffo! Paradossalmente, la pandemia, privandoci dell’uso dei sensi, è stata la catechesi più riuscita per convincerci dell’importanza spirituale dei sensi. Dio recupera tutto al bene. Spero, però, che nessuno perda il desiderio di incontrarLo attraverso i segni sensibili e comunitari dei sacramenti.

Vi sono esperienze accadute in questo periodo particolarmente significative che ha avuto modo di conoscere?

Beh, senza dubbio la dignità dei “nuovi poveri”. Speriamo di essere sufficientemente rispettosi nei loro confronti e capaci di cogliere i “non detti” che emergono da queste situazioni. Sono anche molto contento della centralità data alla Parola di Dio nella predicazione. Ma se dovessi descrivere un “fatto di vangelo” più significativo rispetto ad altri, mi viene da pensare allo spirito di fratellanza dei vari operatori che ho incontrato, anche oltre i confini parrocchiali: Banco alimentare, Croce rossa, laicato impegnato… Insomma, si respira aria buona e si registrano formule nuove di convivenza e partecipazione. Speriamo che questi nuovi vincoli continuino a resistere all’indifferenza della cosiddetta “fase di normalizzazione” e contribuiscano a costruire una vera civiltà dell’amore. In questo periodo, non mi sono mai interessato di affrettare le “riaperture”. A me interessa che ci sia un vero cambiamento di sguardi e di priorità. Un po’ dipende da noi, ma, come ci insegna l’imminente Pentecoste, molto dipende dalla nostra disponibilità ad accogliere la Forza che viene dall’alto.

Don Carmelo per finire ci parli dei suoi parrocchiani. Che tipi sono?

Come ho detto prima siamo una piccola comunità di circa 1.200 fedeli, che insiste su un territorio da favola, il promontorio di Capo Milazzo. I tramonti sono mozzafiato. Immersi in così tanta bellezza, la gente del Capo vive con gratitudine il dono della vita. Amano distinguersi, con un certo vezzo, dal contesto urbano della vicina Milazzo. Ma questo spirito identitario ha procurato loro l’appellativo poco lusinghiero di “formiche rosse”. Loro ne hanno ricavato un vanto: non dispiace loro essere paragonati a insetti laboriosi e comunitari, disposti a tirare fuori anche un caratterino mordente, se necessario. In effetti, a volte, sono troppo sospettosi verso i “forestieri”, ma se gli entri nel cuore ti accolgono con grande affetto. Non soffrono la povertà, anche se questi ultimi tempi sono stati difficili per molte famiglie. Rispondono con generosità ad ogni iniziativa solidale, prendendo iniziativa anche oltre i confini parrocchiali. Sono parte della rete sociale anche i “capiciani” emigrati in America e in Australia molti anni addietro, grazie a una discreta cura dei contatti con le seconde generazioni. Tutti confidano in Dio e nella Addolorata, anche se il parroco li vorrebbe più presenti a messa. Sant’Antonio ha un posto speciale nella devozione popolare, perché qui il Santo naufragò 800 anni fa e trovò riparo in una grotta che i pescatori del luogo usavano come rifugio. Dall’incanto dei nostri tramonti infuocati abbiamo imparato che c’è sempre un’alba di speranza. Da Antonio abbiamo imparato che Dio volge al bene ogni “naufragio”. Oggi quella grotta è un importante santuario antoniano per tutta la zona tirrenica della diocesi di Messina.

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