Maiti. Resistenza e perdono

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di Francesco Inguanti

“Nel tempo in cui non potevo più fare correre le mani sulla tastiera, compresi che il perdono era uno spartito da suonare a quattro mani, con Dio. Senza di Lui, senza la sua percezione costante della sua presenza al mio fianco, non avrei mai potuto sopportare lo shock di quel confronto quarant’anni dopo”.

Così si conclude il libro: “Maiti. Resistenza e perdono”, di Maiti Gintanner con Guillaume Tabard e la prefazione di Erik Varden, pubblicato da Itaca.

Un libro piccolo, semplice e affascinate nelle sue 140 pagine con una storia neanche molto originale, frutto degli orrori della seconda guerra mondiale, riscattata da un evento imprevisto e imprevedibile accaduto oltre 40 anni dopo le vicende narrate, in cui la mano di Dio prende forma attraverso un incontro che ridona senso e speranza anche ad un medico aguzzino tedesco prima della sua morte.

Maiti all’inizio della guerra ha 18 anni, è di nazionalità svizzera, ma vive in Francia con la sua famiglia. Forse suo malgrado si trova a collaborare con la resistenza francese e dopo alcuni anni nel 1943 viene arrestata e per alcuni mesi subisce le torture di un medico tedesco di nome Léo. Liberata dalla resistenza deve fare i conti con il suo corpo terribilmente e definitivamente mutilato dalle percosse ricevute alla schiena che le hanno interrotto numerosi centri nervosi. Deve rinunciare così alla maternità e alla sua grande passione, il piano. Li sostituisce con l’affetto per i nipotini e l’insegnamento e la sua vita procede quasi serena negli anni del dopoguerra fino al 1984.

Ha sempre vissuto una fede profonda e convinta frutto della educazione familiare e con essa si è sostenuta nei mesi della segregazione e con essa ha aiutato i tanti incontrati in quegli anni di guerra in cui la speranza sembrava un bene introvabile.

Di Léo non sapeva nulla in quei mesi terribili se non il nome e il grado militare. “A più riprese vidi nella penombra la silhouette slanciata di Léo. Non diceva niente né si mostrava. Non m’interrompeva neanche.  È vero pregavo per Léo. Non gliel’ho mai detto e senza dubbio l’avrebbe presa molto male, però era così, dai primi giorni della mia prigionia. Non senza difficoltà, tentavo di non vedere il male che mi faceva, ma di dire a me stessa che Dio aveva verso di lui uno sguardo d’amore”. (pag. 122-123). Quando la narrazione giunge alla descrizione del male fisico inferto ai prigionieri, Maiti così chiude il discorso: “Se io, io come altri, dopo altri, ho un messaggio da dare, non si basa affatto sulla classifica delle sofferenze subite. Mi si perdoni il fatto che non dica di più riguardo ai cosiddetti “trattamenti” sperimentati dal nostro medico e la sua équipe. Il dolore, credo, si accompagni bene al pudore”. (pag. 124)

Se la storia si concludesse così sarebbe bella, ma non eccezionale.

Ed ecco il colpo di scena.

“ ‘Sono a Parigi, vorrei incontrarla’ L’uomo parlava tedesco. Riconobbi subito la sua voce. Eravamo nel 1984 e pertanto l’avevo sentita l’ultima volta nel febbraio del 1944, ma non avevo alcun dubbio: era lui, Léo, un medico tedesco della Gestapo che mi aveva tenuta prigioniera per diversi mesi durante la seconda guerra mondiale… Léo a Parigi. Il mio aguzzino alla mia porta. Cosa voleva da me?” Seguono 10 pagine intensissime e commoventi che non possono essere né riassunte né spiegate. Giova solo sapere che a Léo era stato diagnosticato un cancro e sei mesi di vita. La sua richiesta era: “Non ho mai dimenticato ciò che lei disse ai miei altri prigionieri a riguardo della morte. Sono sempre rimasto stupito per il clima di speranza che lei aveva instaurato, anche se le vostre prospettive non erano per nulla incoraggianti. Adesso ho paura della morte. Desidero capire meglio”.

Segue poi la sintesi della conversazione fatta da Maiti, nella quale si comprende meglio la frase conclusiva del libro.

Ma la storia continua. “Per diversi anni ho conservato questa storia per me. Per pudore, non desideravo mettermi in mostra. Per rispetto anche dell’intimità della sua storia personale. Circa dieci anni dopo questo incontro incredibile, le persone più intime a cui ne avevo parlato mi hanno convinto della necessità di dare testimonianza di questi fatti e per questo di ritornare su alcune circostanze, fin dove ho potuto…. Al tramonto della mia vita, ecco rintracciare le principali tappe della mia esistenza che permettono di comprendere, spero, perché e come il Signore si sia servito di uno dei suoi servi inutili per rivelare la potenza della sua misericordia” (pag. 20)

Leggere questo libro mentre scorrono in televisione le immagini della guerra in corso è ancora più doloroso. La storia si ripete, le guerre non finiscono mai e il tema del perdono pesa come un macigno su ogni uomo. Quanto accaduto a Maiti riguarderà certamente milioni persone che dopo la guerra dovranno riprendere a vivere insieme, a non farsi la guerra per sempre. Ma riguarda ciascuno di noi cui il perdono del torto subito dal familiare, dall’amico, dal conoscente ci insegue ogni momento.

La storia di Maiti insegna che da soli non si può perdonare, è uno spartito da suonare a quattro mani. Ricorda la storia della vedova del commissario calabresi che giunge a perdonare chi gli aveva ucciso il marito solo alla fine di un lungo percorso di fede quando comprende che solo con l’aiuto di Dio si può. Ma torniamo a Maiti.

“Io credo alla comunione dei santi ed ero persuasa che in qualche modo, del quale avrei potuto non venire mai a conoscenza, il Signore avrebbe trovato la maniera di agire il lui. Il mio modo di desiderare la sua salvezza era desiderare di sconfiggere il male che portavo dentro di me, del quale io stessa ero complice. Poiché non ci sono i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici, i santi e i peccatori. Non ci sono che esseri umani, tutti macchiati dal peccato e tutti capaci di essere salvati se si lascia agire Cristo. O se, almeno lo si desidera”. (Pag. 140).

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