I Media della C.E.I. Insieme … per passione Incontro con mons. Dario Viganò

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di Francesco Inguanti

Il tema della IV edizione di I MEDIA DELLA C.E.I. INSIEME … PER PASSIONE di quest’anno è: «La gente, chi dice che io sia?» ma parlando con un grande esperto di comunicazione potremmo dire: “I media chi dicono che io sia? Lei come risponderebbe?

Se partiamo dal medium per antonomasia, che io conosco meglio, il cinema, possiamo dire che esso nasce fin dalle origini guardando alla storia sacra e in particolare alla storia di Gesù. Di Gesù racconta in particolare l’esperienza della passione, al punto tale che alle origini si svilupparono delle di produzioni specifiche di questo genere cinematografico. Nella storia del cinema abbiamo film che hanno cercato di fare forma a una delle narrazioni evangeliche; altri film che si originano da libri e romanzi e altri ancora che senza raccontare la vicenda di Gesù narrano delle vicende dell’umano in modo tale che però emergano quegli elementi caratteristici della storia di Cristo. Sono i cosiddetti film parabolici che troviamo certamente nel cinema classico come Bresson ma anche produzioni recenti come Gran Torino.

Ma poi è nata la televisione e più di recente i social. Come è cambiato questo rapporto?

Nei social le community si costituiscono attorno ad una omologazione di idee e in genere vengono espulsi coloro che non hanno questa omologazione. Come dice il Papa i social sono luoghi dove difficilmente si riesce a costituire una fraternità universale, e diventano anche strategie per costruire inimicizie, contrapposizioni, ecc. La domanda della fede, “Chi è Cristo?” è certamente un tema divisivo e la riflessione della fede richiede pacatezza, tempo, ascolto, mentre i social e il panorama dei media digitali oggi si giocano sull’immediatezza.

E allora vuol dire che i media non possono raccontare?

Si certo che possono raccontare, ma quando gli animatori, gli operatori dei media hanno a cuore questa domanda. Benedetto XVI diceva che dobbiamo aver a cuore la mano e il cuore dell’operatore. Da questo punto di vista dobbiamo creare occasioni per rendere più feconda la coscienza professionale e umana degli operatori dei media.

Ma ai media oggi cosa interessa di Gesù Cristo? L’aspetto sociale o quello dottrinale?

Rispondo ricordando il brano evangelico della guarigione del sordomuto. Gesù per prima cosa lo chiama in disparte, in qualche modo Gesù sa che quell’uomo in mezzo ai suoi non riesce ad ascoltare, c’è bisogno di una chiamata in disparte. Poi Gesù ne tocca le orecchie e con la saliva la lingua. Non dimentichiamo che gli antichi dicevano che la saliva è il condensato del respiro. Cristo dà lo spirito, la vita, l’amore, all’uomo che nell’incontro con Gesù è in grado di ascoltare e testimoniare.

Perché Gesù si comporta così?

Ricordiamo a tal proposito le origini della creazione: Eva ascolta la parola sbagliata, Eva guarda il frutto e vede che è bello e buono, Eva tocca, Eva prende. Quindi così come nell’inimicizia tra Dio e l’uomo entra la perversione dei sensi, la salvezza avviene attraverso la redenzione dei sensi. Quindi solamente l’uomo che consegna a Dio salvatore tutti i suoi sensi e li fa trasfigurare, è un uomo salvato.

Che cosa interessa agli operatori credenti che operano nei media?

Interessa raccontare l’esperienza di Cristo che non è un’idea, perché la fede non si spiega, ma si testimonia; interessa un Cristo che prende su di sé tutto ciò che è povertà in noi. Forse non vale la pena distinguere se interessa di più l’aspetto dottrinale o sociale perché in fondo Gesù ha avuto sempre come compagnia massima nella sua vita i poveri. Quindi la Chiesa non è vicina agli ultimi, ai peccatori, ai poveri per scelta sociologica, ma perché avendo ricevuto la vita di Dio non può che fare così.

Ma la dicotomia tra dottrina e impegno sociale non si può negare.

Certo ed è un atteggiamento spesso di comodo. Nel senso che chi contrappone l’idea di una immagine di Gesù più spirituale a quella più sociale pensa a una fede come un insieme di dottrine che però non coinvolge la vita oppure, al contrario, a una fede che è semplicemente una forma più politica di presenza. La prima è un’eresia e la seconda è la perversione della teologia in forma politica. Proprio aderendo al modo di vivere di Dio noi liberiamo dalla povertà le persone che incontriamo e così facendo manifestiamo la vita di Dio in noi. Perché la vita della fede non è cercare di adeguarsi a degli ideali con la forza di volontà, perché sarebbe un cammino estrinseco. La vita della fede è riconoscere che abbiamo ricevuto come dono nel Battesimo la vita di Dio. Quindi nella mia carne ho quella vita di Dio; quindi se io amo al modo di Dio sto vivendo la fede.

L’uso del web in pandemia è stato necessario. Ma ora non c’è il rischio di utilizzarlo anche se non è strettamente necessario?

In pandemia siamo stati costretti a percorrere una strada senza la necessaria preparazione e forse la creatività ne ha sofferto. Adesso però diventerebbe un problema se i cristiani non avessero la percezione della differenza per esempio tra la celebrazione della Messa in chiesa e quella vista in televisione. Vorrebbe dire che quello diventa solo un atto religioso dovuto, magari per acquisire un merito, mentre sappiamo che l’Eucarestia è un “totalmente altro”. Ecco perché la fede e la salvezza non sono frutto di un merito ma sono frutto della Grazia, perché tutto ciò che dipende dal merito è meretricio. Ma c’è dell’altro.

Cioè?

Perché il paradigma della fede cristiana è nella comunità in cui c’è l’incontro dello sguardo e la vicinanza dei corpi. Ricordiamo che Dio si è fatto carne, storia, Probabilmente c’è adesso la necessità per la comunità cristiana di riprendere un recupero di fascinazione in presenza. Tutto ciò può divenire anche un cammino di conversione. Se la comunità cristiana reitera in maniera stanca ciò che è diventato abitudine è facile capire perché la gente non coglierà la differenza. Se invece si percepirà la differenza enorme tra l’essere in presenza, partecipare, condividere, provare emozioni insieme piuttosto che essere semplicemente davanti a uno schermo, credo che si possa riprendere il cammino.

Di fronte al proliferare incontrollato di fonti di informazione, come si fa ad aiutare le persone a formulare un giudizio serio ed equilibrato?

La questione è molto complessa. Parto dalla enciclica Fratelli tutti che ha uno sguardo molto disincantato sul mondo digitale. Noi utenti siamo merce e alla mercé dei poteri forti. Non c’è semplicemente la personalizzazione dell’informazione, ma c’è anche l’estrazione del residuo comportamentale per cui le nostre modalità di accesso al mondo della rete viene venduto al mercato predittivo, quindi quel mercato che costruirà i nostri bisogni. Questo è ormai il core businnes della rete, dove l’informazione resta una cosa aleatoria.

In fratelli tutti papa Francesco parla di media digitali. Una parola…

Perché esce dalla logica degli strumenti neutri. Senza assumere la logica del determinismo tecnologico, i media determinano atteggiamenti e comportamenti insieme a tanti altri fattori. Quindi credo ci troviamo di fronte una sfida molto grossa. E penso che c’è una responsabilità fondamentale della scuola non tanto e non solo di insegnare a come muoversi in questo mondo, ma soprattutto per recuperare quell’altissimo profilo del nostro sistema scolastico che oggi si è perduto. Oggi è ormai noto a tutti che ci sono ragazzi che finiscono la scuola dell’obbligo e manca a loro un bagaglio di letteratura, di storia, di curiosità. Bisogna impegnarsi per valorizzare l’impegno scolastico anche perché i ragazzi passano più ore a scuola che non in famiglia.

E questo esempio rispetto alla Chiesa cosa significa?

Oggi la Chiesa più di ieri deve mettere in campo tutta la passione che ha per il Vangelo e tutta la creatività di cui è capace perché il Vangelo e l’umanità che incontra quotidianamente possano andare a braccetto. Umanità e Vangelo non sono nemici, diceva Paolo VI. Quindi da questo punto di vista la Chiesa non può pensare di essere maestra come quarant’anni fa, perché o la chiesa è credibile allora ha senso ascoltarla, o se predica un Vangelo che non vive, non è più credibile, per cui è una grande straniera, anche se molto prossima. Tornando a Paolo VI: non maestri ma testimoni.

Di fronte a questi così rapidi cambiamenti è ancora valido l’impegno per sostenere “testate cattoliche” o non me meglio sostenere da cattolici tutte le fonti di informazione?

Credo valga la pena continuare sulla strada finora intrapresa, perché quelle testate hanno una lettura molto precisa che può aiutare molto, è una scuola di educazione, da questo punto di vista. Ma penso anche al grande valore che hanno all’interno di tutto il panorama editoriale. Nelle rassegne stampe che ancora si fanno ad esempio Avvenire non manca mai. Questo vuol dire che introduce un elemento di lettura spesso distonico rispetto alla omologazione di altri quotidiani, perché è una visione dal punto di vista cristiano che evidentemente interessa. E interessa rispetto ai grandi temi della povertà, dell’accoglienza, dell’emigrazione, e quindi tutto ciò è fondamentale perché in tal modo si inserisce nei grandi tavoli di pensiero e azione politica dei punti di vista diversi. Ecco perché vale la pena sostenere queste testate.

E i cattolici impegnati nei media laici cosa dovrebbero fare?

Anche loro vanno sostenuti. Anzi proprio loro vanno sostenuti di più perché non bisogna farli sentire soli.

A tal proposito hanno ancora un ruolo i giornali cattolici diocesani?

La stampa locale diocesana va sostenuta, anche se dipende da situazione a situazione. Perché esprime un radicamento sul territorio che permette di raggiungere tante persone con più forza e continuità.

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