PATTO EDUCATIVO

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di Francesco Inguanti

Si potrebbe partire dalla tragica fine di Antonella, la bimba di 10 anni morta a Palermo dopo una presunta sfida estrema di soffocamento su TikTok. Si potrebbe partire dalle parole di papa Francesco “Mai come ora, c’è bisogno di unire gli sforzi per un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna”. Si potrebbe partire da altro. Ma tutte le strade portano inesorabilmente alla parola “educazione”. Un termine costitutivo in ogni epoca del trapasso generazionale tra giovani e adulti, che oggi sembra scomparso dal vocabolario degli educatori.

A scuola viene sostituito da tempo con “trasmissione delle conoscenze”, oppure “addestramento al saper fare”, o come riporta il “Documento di valutazione” delle scuole elementari, che una volta si chiamava pagella, ove troviamo scritto che per giudicare un bambino positivamente bisogna dire se «mostra di padroneggiare quanto gli è stato insegnato e di saper allargare da solo il campo delle proprie conoscenze». Mettendo da parte quello che Ernesto Galli Della Loggia ha definito una “eterna maledizione italiana di una burocrazia che gode ad adoperare un linguaggio iniziatico ogniqualvolta redige un documento”, rimane il fatto che oggi nessuno deve avere la pretesa di educare. Sembrano lontani secoli gli anni dell’inizio della Tv in Italia quando il compianto Ettore Bernabei che dal 1961 al 1974 fu Direttore generale della Rai, si preoccupava di mandare in onda programmi in grado di accompagnare la crescita culturale degli italiani in pieno boom economico, con programmi che li aiutassero ad essere migliori cittadini. I più grandi ricordano l’importanza che ebbe la “Tv dei ragazzi” fino a quando la perdita del monopolio e l’avvento della concorrenza delle Tv commerciali agli inizi degli anni ’70 autorizzarono tutti ad ignorare che i più piccoli già allor venivano “educati” più dal video che dai genitori.

Tornando però alla questione educativa e a quello che ormai si chiama “Patto Educativo” occorre porre alcune distinzioni per inoltrarsi in un terreno pieno di suggerimenti e buoni propositi, il cui segno è la quantità di libri che si sfornano quasi settimanalmente sull’argomento, pieni di buoni percorsi da additare e buoni esempi da imitare.

La prima questione riguarda i soggetti “abilitati” alla formazione dei giovani. Lucia La Fata, dirigente presso l’Istituto Archimede–La Fata in Partinico ci ha detto: “Una volta le figure che educavano erano la famiglia, la scuola e la parrocchia. Ora, invece, gli enti per così dire non accreditati ma che incidono nel processo educativo, sono molteplici”. Si può dire in altre parole che c’è una “concorrenza sleale” tra questi soggetti e il web, è quello che vince su tutti gli altri.

Andrea Sollena, docente nel Liceo Scientifico “Santi Savarino” di Partinico è già intervenuto sul nostro giornale parlando della adultità degli adulti di oggi che non giunge a maturazione facendo rientrare la causa anche alla frattura accaduta nei processi educativi dopo il ’68. Luigi Ceriani noto anche per il suo recente libro: ”Figli, rischio & villaggio (globale)” ha detto a proposito: “Per cinquemila anni gli esseri umani hanno cresciuto figli educandoli e passando loro i propri criteri, il proprio sistema di senso; poi questa tradizione si è interrotta nel ’68, un periodo che ha portato novità e cambiamenti in molti ambiti nei quali c’era effettivamente un bisogno reale di rinnovamento, ma che ha portato in ambito educativo il consolidarsi di alcune certezze che stanno producendo gravi danni”.

Il discorso sul ’68 rischia di portarci lontano ed è certo meglio definire almeno i contorni della “concorrenza sleale” operata dai social. La tecnologia e i social in particolare sono definiti comunemente strumenti utili e pericolosi al tempo stesso, che bisogna imparare a utilizzare.

Mons. Michele Pennisi in un dibattito televisivo ha detto a tal proposito: “L’emergenza educativa determina la diminuzione della funzione educativa dei genitori e degli insegnanti e il loro affidamento ai mezzi della comunicazione sociale, ai nuovi virtuali genitori elettronici, ai social network, che per i giovanissimi sono ormai la principale forma di comunicazione. … Essi sono molto di più che meri ’strumenti’ e acquistano il valore di fattori costitutivi dell’ambiente vitale delle persone. Oggi più che mai l’educatore o il diseducatore sovrano è l’ambiente con tutte le sue forme espressive.   Il mondo virtuale è seduttivo, immediato e allettante, perché le musiche e le immagini sembrano sempre innocue e leggere…. Dopo la pandemia si parla di “catastrofe educativa “in quanto nell’accesso alle piattaforme educative e informatiche, si rivela “marcata disparità delle opportunità”. Il problema non è di demonizzare o limitare l’accesso a questo o quel social, ma di porre l’educazione consapevole e critica al loro uso tra gli obiettivi fondamentali dei vari educatori.  Si tratta di imparare a formulare le giuste domande sulla nuova sfida educativa che il multiforme universo web dei social”.

Ancora ritorna prepotente la questione del “Patto educativo”. Marilina Sclafani, che insegnante di sostegno all’Istituto comprensivo statale Domenico Scinà di Palermo ne parla così: “Credo che rappresenti un’occasione fondamentale per rinsaldare l’alleanza tra famiglia e scuola che è alla base dei processi educativi. Di fatto genitori e insegnanti pongono al centro un bene molto prezioso: l’alunno che coincide con il figlio. Credo quindi che guardare da prospettive diverse l’alunno sia di fondamentale importanza per la sua crescita e per l’investimento che si fa sui ragazzi, cittadini di domani”. E alla domanda sul perché sia così difficile educare oggi risponde: “Sono cambiati i protagonisti dell’azione educativa è cambiato qualcosa nelle abitudini dei nostri ragazzi I ragazzi di oggi dedicano sempre minore tempo al gioco e sempre più tempo ai dispositivi elettronici”. Ci spiega che mentre un tempo per incontrarsi tra loro i ragazzi dovevano uscire di casa adesso è più comodo incontrarsi sul web senza fare la fatica di alzarsi dalla sedia. Se a questo, aggiungiamo noi, si aggiungono le costrizioni provocate dalla pandemia, si comprende perché i social da strumento di comunicazione tra i giovani diventano poi pericolose occasione per fare cattivi incontri attraverso il web. Il bosco in cui Cappuccetto rosso rischiava di fare la conoscenza del lupo è stato sostituito da un video, ove i rischi sono ben maggiori.

I giovani, sostiene il filosofo Umberto Galimberti, hanno bisogno di essere convocati. “Vivono di notte perché di giorno nessuno li convoca, nessuno li chiama per nome, nessuno li vede come una risorsa, ma piuttosto come un problema. […] Vogliono anestetizzare il loro sguardo sul futuro, perché questo sguardo mette angoscia”.

Lo stretto rapporto tra insegnante e genitore si rivela sempre decisivo. Ne abbiamo chiesto le connotazioni a Lucia La Fata proprio in questa duplice veste: “Da insegnante e genitore al tempo stesso cerco di tenere aperto questo dialogo con i nostri figli per essere per loro punto di riferimento, assumendo innanzitutto una posizione di ascolto. I nostri ragazzi non accettano i discorsi teorici, quelli che una volita si chiamavano sermoni; paga di più ascoltarli: ‘Io ci sono; quando vuoi possiamo parlare’. Una presenza, anche silenziosa ma costante, cercando di moltiplicare i momenti di presenza. So che non è facile, perché bisogna dare al lavoro sempre più tempo, come anche il lavoro da casa ha dimostrato in questi mesi ad insegnanti e non insegnati. Ma non credo ci sia un’altra via”.

Molti insegnanti hanno raccontato di tanti incontri proposti nelle scuole ove insegnano che hanno prodotto anche buoni processi di identificazione tra i ragazzi, ma Lucia La Fata, tornando sui c. d. fashion blogger che diventano agli occhi dei più giovani modelli, educatori, ecc precisa: “Questi personaggi e questi modelli vivono in un mondo irreale, staccato dalla realtà quotidiana. Noi ci identificavamo in persone reali possibilmente migliori di noi, ma sempre a noi vicine, che vivevano a scuola, all’oratorio o in paese, cioè in carne e ossa. Ricordo la coppia che ci seguiva in parrocchia cui noi volevamo assomigliare vivevano i problemi di tutti e cercavano di affrontarli alla luce della fede. Mia figlia si indentifica con personaggi che guadagnano tantissimo e si permettono ogni spesa. È inevitabile che gli adolescenti vivano una spaccatura tra ciò che vorrebbero essere e ciò che la realtà li costringe ad essere”.

La questione dei modelli da proporre che è elemento fondante di ogni tipo di educazione, anche quella attraverso lo sport o l’arti, ritorno ancora.

Franco Nembrini docente noto al pubblico televisivo per la sua rilettura di Pinocchio e della Divina Commedia dice in merito: “Circondati da tanto schifo e da adulti che si lamentano sempre di tutto, i ragazzi non riescono più a vedere il bene, la grandezza e la sicurezza della vita. Sono come un cellulare in una stanza con le pareti di cemento armato, non gli arriva il segnale del mondo degli adulti. Perciò gli adulti dovrebbero potenziare il loro segnale”. E alla domanda su quale debba essere questo segnale risponde: “Quello di amarli e perdonarli! Cioè di guardarli, anche senza parlare, e fargli sentire che noi daremmo la vita per loro, anche se hanno i piedi bruciati, come fece Pinocchio, e hanno fatto delle stupidaggini”. Si apre a questo punto anche il tema della coerenza. Sempre Nembrini risponde così: “Piantiamola di pensare che saremo dei buoni genitori se non sbaglieremo mai: è impossibile. … Quello che i figli ci chiedono non è di non sbagliare, ma di non cedere, di non arrendersi, di aggredire la vita: Se vedono che un adulto non ci crede più smettono di farlo anche loro. Allora sono davvero disperati”.

Abbiamo chiesto a Mons. Michele Pennisi le prospettive di questo cammino. “Siamo di fronte a un lavoro lungo, lento, capillare, volto a educare più che a reprimere, a far capire, più che a promettere premi o minacciare castighi. Per educare bisogna essere convincenti da parte degli adulti, accompagnando le parole con la testimonianza di esempi efficaci, che facciano sentire il fascino e la bellezza di una vita buona. I ragazzi imparano solo se si verificano almeno due condizioni: se gli adulti insegnano e se lo fanno con linguaggi e modi adeguati alla loro età. Il figlio vive all’interno di una rete di relazioni educanti che fin dall’inizio ne segna la personalità futura. L’educazione è soprattutto una questione di amore e di responsabilità che si trasmette nel tempo di generazione in generazione”. Riproponendo i termini da cui siamo partiti precisa: “Mentre l’istruzione e l’addestramento possono essere settoriali e possono essere attribuiti a qualche soggetto singolo o al limite ad un computer, l’educazione implica una relazione interpersonale e coinvolge l’insieme dei soggetti che vi operano compresa la persona e educata e l’insieme degli ambiti. L’educazione è l’esito di una rete di relazioni tra soggetti educanti. È anzitutto un fatto “corale”, non una funzione specialistica. Per educare un bambino ci vuole un villaggio. Il soggetto adeguato dell’educazione può essere soltanto una vera comunità educante, ossia una rete solidale e responsabile di legami in funzione della crescita dei più giovani e della qualità umana del contesto in cui si vive. I percorsi formativi per genitori ed educatori sono importanti, ma bastano solo le istruzioni per l’uso per poter educare. L’educazione non può ridursi a sole istruzioni per l’uso: come usare della vita, senza farsi troppo male”.

E dunque, in questo scenario così desolante cui si è aggiunta l’emergenza sanitaria da dove ripartire? Dalle esperienze profetiche di cui parla Luigi Ceriani, il quale afferma che ci vogliono testimonianze di vita di uomini appassionati, capaci di non rinunciare alla grandezza del proprio desiderio, di lasciarsi ferire da quell’imprevisto. E il compito dei profeti, ma poi di tutti noi in quanto educatori, è quello di tenere viva la speranza, non l’illusione che tutto vada bene, ma la testimonianza che la vita ha un senso. La speranza è quella certezza che nella vita si genera quando si riconosce un significato positivo perché esso è ciò che consente di stare davanti alla paura, alle crisi e ai fallimenti. “L’adulto può ammettere di avere paura – scrive Ceriani –, ma deve anche testimoniare che la paura può essere affrontata (a cosa servirebbe altrimenti il coraggio?). Per essere credibili, però, è necessario che iniziamo noi per primi ad affrontare la paura, quindi il rischio, magari proprio scommettendo sulle risorse dei nostri figli. Al bambino che non dorme a causa di una fiaba che lo ha spaventato, non bisogna dire: ‘Tranquillo, era solo una fiaba… e poi a Milano i lupi non ci sono!’, ma: ‘Dovessero anche arrivare i lupi, tuo padre c’è’”.

Non si può educare con l’intendimento di risparmiare ogni fatica ai figli. Un’insegnante di scuola materna raccontava che i bambini di 3 e 4 anni che giungono all’asilo non sanno aprire una borraccia, tirar giù la zip della giacca a vento, maneggiare le forbici. Non si può vivere con la preoccupazione di risparmiare a noi e ai nostri figli i pericoli, i rischi e la paura ma l’appassionata esigenza di comunicargli le ragioni per affrontare le difficoltà, i pericoli, la paura. “Dunque, – dice Ceriani – il compito di ogni adulto, genitore o insegnante che sia, è affermare (o ritrovare) il senso della vita, così come dare un senso alla disgrazia, l’unica armatura che serve davvero ai nostri figli”.

E chi è cristiano che responsabilità ha in tutto ciò, abbiamo chiesto a Mons. Pennisi? “Ha certamente una responsabilità in più, ma anche una marcia in più. Ha trovato un tesoro nascosto che sarebbe stupido tenere nascosto. Anche il Vangelo invita a investire su ciò che si ha, come ad esempio i talenti. Speriamo di non essere giudicati per aver nascosto i talenti sotto terra, come fece Pinocchio che sperava così con poca fatica di farli fruttare. Investimento e rischio non valgono solo in alcune professioni, ma anche nella vita, a partire dal mestiere di genitore che rimane il più difficile di tutti”.

Cosa è educazione l’abbiamo chiesto per ultimo a Maria Marino, che insegna nella Scuola “Renato Guttuso” di Villagrazia di Carini: “Educare vuol dire innanzitutto comunicare una speranza a quei volti smarriti degli alunni, distratti dietro lo schermo di un telefono o di un computer che li allontana sempre più dalla realtà. Significa suscitare in loro le domande sul senso della loro vita, a partire da quello che colpisce innanzitutto me come insegnante. Vuol dire tirar fuori i talenti di ognuno di loro, farli sentire importanti e fare un cammino insieme, spronandoli ad andare in profondità delle questioni che vivono”. Per finire le chiediamo come fa questo in classe. “Nelle mie lezioni cerco di comunicare loro la bellezza incontrata e, seppur nelle mille fatiche quotidiane, pian piano iniziano a riconoscere l’origine di ciò che genera me. Qualcuno mi dice: ‘Vorrei stare tutto il tempo con lei, lei ci racconta della sua vita e le sue lezioni partono sempre da qualcosa che ha vissuto in prima persona. Forse usciti dalle scuole medie non sapremo nulla della sua materia ma ci ricorderemo per sempre il suo volto e quello che ha tentato di comunicarci’. Questo per me rende la sfida educativa entusiasmante: incontrare persone che come me, hanno lo stesso desiderio di una vita piena. E camminare insieme alla scoperta del Destino buono che ha a cuore la mia felicità così come la loro”.

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