La medicina migliore contro il Covid-19 sarà la riscoperta di una speranza ragionevole che ci preservi dall’oblio e dall’indifferenza

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di Francesco Inguanti

Il dottore Francesco Amico è Direttore UOC Cardiologia AOE Cannizzaro – Catania

Da mesi la scena mediatica e non solo quella è occupata dalla figura del medico. Come ne esce l’intera categoria che si è dovuta barcamenare da grandi atti di generosità, fino all’eroismo, e molti errori che ormai appaiono palesi?

La pandemia da Coronavirus ha travolto tutti come uno tsunami, improvvisamente ci siamo trovati di fronte ad un evento inaspettato. Ansia, angoscia, smarrimento, paura, hanno preso il sopravvento, creando disorientamento ed incertezza. Queste sensazioni hanno interessato tutti, coinvolgendo soprattutto coloro che si sono trovati in prima linea ad affrontare il nemico, il mostro, come alcuni lo hanno definito, cioè il Covid-19. Medici ed operatori sanitari tutti ci siamo trovati all’improvviso di fronte ad una malattia che aveva la necessità di essere affrontata con tempestività e determinazione, a causa della particolare aggressività delle manifestazioni cliniche.

 Come si è evoluta questa situazione così difficile?

Nelle fasi iniziali della pandemia le conoscenze mediche che fino a quel momento avevano dettato terapie sulla base di dati scientifici consolidati, si sono rivelate insufficienti ed inefficaci, facendo crollare quelle certezze su cui ci eravamo da tempo adagiati. Ognuno di noi è stato messo di fronte alla fragilità e alla vulnerabilità. Siamo stati investiti da informazioni contrastanti, spesso causate dall’improvvisazione del momento, per cui l’esperienza che ognuno ha potuto maturare sul campo in forza di un confronto e scambio di informazioni tra colleghi, ha fatto sì che si potessero mettere in atto protocolli terapeutici rilevatisi nel corso delle settimane, efficaci nella cura tanto da portare alla guarigione nella maggior parte dei casi. La mortalità, considerevole se riferita relativamente all’epidemia, ma statisticamente inferiore rispetto ad altre patologie che a tutt’oggi impattano sulla mortalità globale (es. malattie cardiovascolari e malattie oncologiche), ha coinvolto soprattutto pazienti anziani e fragili, in condizioni cliniche complesse in quanto affetti da gravi comorbidità al momento dell’infezione.

Quanto agli errori o alle valutazioni imprecise: sono dipese dalla difficoltà di rapporto con politici e amministratori, chiamati ad assumere tante, tantissime decisioni spesso in poco tempo o con pochi elementi di valutazione ed anche dalla pressione esercitata dall’opinione pubblica?

L’aver definito i medici ed i sanitari in generale, eroi, è stato dettato soprattutto da un’onda di emotività scaturita dalle immagini che ritraevano medici ed infermieri reduci da turni massacranti con i segni evidenti della fatica e della stanchezza stampata sui loro volti. Non ci siamo sentiti particolarmente lusingati da queste affermazioni, perché consapevoli degli sforzi che abbiamo sempre compiuto nel lavoro quotidiano in era pre Covid e che continueremo a compiere successivamente; è il lavoro dell’operatore sanitario che ogni giorno si confronta con la sofferenza, il dolore, la morte. Forse la straordinarietà del momento ha messo in evidenza quello che per noi è la normalità. Tengo a precisare che la medicina non può assolutamente definirsi una scienza esatta, la variabilità legata all’aspetto prettamente individuale e l’esito di un evento clinico, apparentemente fallace, sempre più spesso viene imputato all’errore medico che come qualsiasi gesto umano può accadere, ma esso nel caso dei medici viene sempre più frequentemente e pretestuosamente associato alla cattiva condotta (malpractice). Nel caso di questa pandemia gli operatori sanitari si sono trovati di fronte ad un turbinio di informazioni contrastanti derivate dalla confusione che ha coinvolto in primis organi istituzionali di alto livello quali Organizzazione Mondiale della Sanità, Istituto Superiore di Sanità e che a cascata si è ribaltata inevitabilmente fino agli amministratori e ai decisori in campo sanitario.

 E in particolare la politica?

La politica ha avuto la responsabilità di aver sottovalutato il progressivo depauperamento delle risorse economiche ed umane nel settore sanitario, di non aver ascoltato le grida di allarme lanciate in “tempo di pace” e pertanto si è trovata impreparata ad affrontare la crisi. A tal proposito Papa Francesco di recente, in occasione della Giornata Internazionale dell’infermiere, nel suo messaggio rivolgendosi ai responsabili delle nazioni, ha raccomandato di investire in strutture ed infermieri per offrire adeguati servizi di cura rispettosi della dignità umana. In Italia ancor più che in altre nazioni europee come Germania, e Francia il problema è particolarmente sentito.

 Tra le tante diatribe esplose in questi mesi grande spazio ha avuto lo scontro tra l’autonomia rivendicata dalle Regioni e il centralismo invocato a gran voce da molti. Come la pensa lei in merito e come pensa andrà a finire?

L’azione delle varie Regioni, pur rispondendo a direttive nazionali, ha avuto connotazioni diverse sia per l’impatto puramente epidemiologico legato alla diffusione della malattia nelle singole realtà, sia per la determinazione e l’intransigenza dei singoli governatori nell’intraprendere iniziative volte al contenimento del contagio e della diffusione della malattia. Le azioni sono state frutto dell’iniziativa del singolo ma anche esito del confronto e dello scambio di informazioni tra le varie realtà locali.

 A tal proposito che giudizio può dare della sanità siciliana? Siamo stati previdenti accorti o solamente fortunati, visto il basso numero di malati e decessi?

In particolare riguardo la nostra realtà, ritengo che il sistema sanitario regionale in Sicilia abbia risposto in maniera rapida ed efficace contenendo la diffusione del contagio, attrezzando in poco tempo una rete assistenziale su tutto il territorio regionale, avvalendosi di figure professionali di alto profilo a tutti i livelli consentendo di portare a casa un ottimo risultato globale. Con soddisfazione ed orgoglio possiamo affermare di aver retto bene il confronto con le Regioni cosiddette più virtuose non per fatalità, ma per un ottimo lavoro che è stato svolto e continua ad essere compiuto anche in questa fase di ripresa, a tutti i livelli. Ho avuto modo di essere testimone diretto di uomini che si sono spesi all’inverosimile quasi come in una gara di solidarietà, nell’offrire il proprio aiuto per affrontare il momento critico. Dagli operatori sanitari afferenti a vari reparti, fra cui anche quello in cui esercito la mia professione, che hanno risposto prontamente alla richiesta per coprire turni di guardia nel reparto che accoglieva i malati COVID, alla libera iniziativa dei singoli cittadini, che mediante donazioni di vario genere hanno cercato di manifestare la loro presenza fattiva in un momento di grande difficoltà spinti da creatività e carità inaspettate.

Come ha vissuto in questi mesi il rapporto con i pazienti? È venuta meno parte della fiducia che avevano nella medicina e nelle capacità di cura?

La situazione emergenziale del COVID 19 ha messo in evidenza la complessità del rapporto medico-paziente, permettendo di sperimentare da parte del medico il limite del potere della scienza e da parte del paziente la paura del contagio, la paura della morte da affrontare nella solitudine. Il mio lavoro di cardiologo ha permesso di rilevare un dato comune non solo in Italia ma in tutto il mondo, quello della riduzione al ricorso alle cure ospedaliere per problemi cardiaci proprio per il timore di recarsi in Pronto Soccorso e poter venire a contatto con i pazienti infettati. A poco sono valse le rassicurazioni che noi operatori sanitari abbiamo diffuso avvalendoci dei vari strumenti di comunicazione a disposizione. Si sono intensificate le consulenze telefoniche, ma la cosa più bella che ho vissuto in questo periodo è stata la vicinanza umana che alcuni pazienti, soprattutto quelli che seguo da più tempo, mi hanno manifestato attraverso messaggi o telefonate, volte a rassicurarsi sul mio stato di salute. E’ proprio vero quanto affermato da Papa Francesco in occasione del Momento straordinario di preghiera del 27 marzo, quando ha detto: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati,…tutti bisognosi di confortarci a vicenda “.

Con la riapertura delle chiese e di tanti esercizi pubblici, sembra di essere tornati alla normalità. Eppure c’è ancora tanta paura in giro. Che cos’è la paura in termini generali? E in particolare di cosa la gente ora ha paura? Della malattia, del contagio, della morte?

Adesso che stiamo vivendo la cosiddetta Fase 2, quella della ripresa graduale alla vita normale, domina ancora la paura in molti pazienti, nello stesso momento rilevo personalmente un atteggiamento contraddittorio in quanto alla paura per l’eventuale contagio che si potrebbe contrarre in ambiente ospedaliero fa da contraltare l’atteggiamento di un “tutti liberi” senza rispetto di regole e raccomandazioni finalizzate al contenimento della diffusione della malattia. Se le conseguenze economiche del lockdown sono divenute spesso constatazione di una triste realtà di crisi che ha investito soprattutto le classi più deboli, dalla quale si cerca di uscire non senza difficoltà, è forse ancora troppo presto per fare il bilancio di quelli che saranno gli effetti clinici a distanza della malattia. Non sappiamo se ci sarà e soprattutto di che entità potrà essere un’eventuale recrudescenza dell’epidemia.

 Che cosa si può dire per l’immediato?

Per questo è particolarmente importante in questo periodo non abbassare la guardia, seguire attentamente le raccomandazioni volte a prevenire la diffusione ed il contagio. Indubbiamente ognuno di noi in misura differente porterà delle cicatrici, ma soprattutto gli operatori sanitari che sono stati coinvolti direttamente in questa drammatica esperienza potranno avere delle conseguenze di natura psicologica derivanti dai carichi di lavoro subiti, dal forte impatto emotivo vissuto. La medicina migliore per vincere le conseguenze della pandemia, oltre ad una terapia adeguata ed un vaccino in grado di preservare da infezioni future, sarà la riscoperta di una speranza ragionevole in grado di preservarci dal rischio dell’oblio e dell’indifferenza per quanto accaduto spronandoci ad azioni costruttive.

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