Diario dal coronavirus 5. Torneremo alla normalità al momento opportuno, ma con un sguardo nuovo

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di Marco Pappalardo

Marco Pappalardo, è docente, scrittore e giornalista. Insegnante a Catania e provincia ha scritto numerosi libri su temi educativi, formativi, religiosi. Collabora con i quotidiani Avvenire e La Sicilia, ed altri periodici.

 “Fare di necessità virtù” è un motto che accende un faro sulla didattica a distanza di questi mesi. Non c’era un’altra strada a marzo, bisognava mettersi in questo campo nel migliore modo possibile cercando di accorciare le distanze; ed è necessario farlo ancora e forse pure a settembre! Alla scuola, oggi e domani, non servono contrapposizioni sulla didattica a distanza tra docenti e dirigenti, docenti e docenti, sindacati e ministro, dirigenti e sindacati, genitori e docenti, e così via. Puntiamo a ricercare il bene più grande cioè la cura degli studenti, così davvero serviremo il nostro Paese.

E poi, attenzione al linguaggio, poiché le parole hanno un peso e, se sbilanciate, raccontano il falso: infatti non bisogna ‘tornare a scuola’, poiché la scuola non si è mai fermata! Con tutti i limiti della didattica a distanza, studenti, docenti, famiglie e personale hanno continuato con un ritmo e modalità diverse l’avventura scolastica sia nelle scuole statali e che in quelle paritarie, spesso con impegno, creatività, sacrificio e senso del dovere. Certo l’esperienza dell’incontro fisico manca, ma non è solo questo che rende la scuola significativa; prova ne è che si può essere presenti fisicamente – sia studenti che insegnanti – ma assenti con il pensiero, senza concentrazione, con la testa fra le nuvole, senza alcuna passione per l’insegnamento e l’apprendimento.

La scuola c’è, anche a distanza, quando si crea quella “corrispondenza d’amorosi sensi” che permette allo studente di trasformare la propria camera nel banco di scuola e al professore di rendere la propria casa una cattedra, non nel senso di un luogo di potere, bensì di condivisione della vita tra cultura, studio, attualità e umanità. Questo nuovo modo di vivere il tempo-scuola può restituire umanità a ciò che in diversi casi è diventato lettera morta, un vecchio reperto abbandonato, un’opera d’arte chiusa in un magazzino dimenticato.

Così la scuola cambia e migliora ritrovando l’essenziale, riscoprendo sé stessa, ridando il vero significato al proprio nome greco – scholé – cioè tempo libero; ingabbiata ormai da anni ed anni, ora a casa e da casa, tramite la didattica a distanza, diventa di nuovo ciò era, un tempo libero da riempire di bellezza, interessi, approfondimenti, fuori programma, ricerche personali, scoperte.

Certo qualcuno leverà gli scudi per dire che questo non è studiare, che non si può valutare, dimenticandosi però che l’origine latina di studium è anche amore e passione, e valeo (da cui valutare) significa pure stare bene. Non è un giocare con le parole, ma un chiamare le cose con il proprio nome, poiché solo così esse riacquistano un senso ed una dignità. Non che prima della pandemia l’istituzione scolastica fosse senza senso, tuttavia dobbiamo chiederci il perché della svogliatezza di moltissimi studenti e della stanchezza di altrettanti insegnanti. In un tempo che ci mette dinanzi la sofferenza e la morte con tanta crudezza, non possiamo negare di avere iniziato l’anno scolastico pensando già dal primo giorno alle vacanze più vicine o sperando nella sospensione per l’allerta meteo! Lo abbiamo vissuto così fino all’inizio di marzo, poi tutto è cambiato e ci ha cambiati, restituendoci la voglia, il tempo, la passione, soprattutto il desiderio di tornare alla normalità al momento opportuno, sì, però con un sguardo nuovo.

Nonostante tutto, quindi, la scuola va avanti, tenendo la testa alta, non un’entità generica ma persone reali, ragazzi, donne e uomini che sono appassionati innanzitutto della vita o almeno dovrebbero. Reciprocamente cresciamo, ci confrontiamo, studiamo, impariamo e, se può essere scontato per un adulto, è bello sentirlo dalle parole di una liceale come Gloria: «Sento di aver compiuto una metamorfosi in questi giorni: da piccolo bruco indolente, mi sono trasformata in una farfalla che attraversa il mondo meravigliandosi delle piccole cose. Un cambiamento che non credevo riuscissi a fare dentro quattro mura: ampliare i miei orizzonti nello studio, nella lettura, nella musica e nel cinema, attenuando il mio male di vivere». E come scrive Jennifer nel suo “Diario personale della pandemia”: «Ho capito che la scuola non è solo un edificio, ma è molto di più. La sostituzione delle comuni giornate scolastiche con la didattica a distanza sottolinea perché il significato di scuola va ben oltre. La vera scuola non è costituita da spiegazioni e interrogazioni, è formata da un rapporto con i compagni e i docenti, dal confronto, dall’amicizia, da sorrisi e sguardi; è un percorso che permette di formare una vera famiglia, di immetterci passo dopo passo in nuovi mondi. Un grazie lo dobbiamo proprio alla scuola se siamo chi siamo.  Nella vita non avremo sempre la strada spianata, non sarà mai tutto semplice, un po’ come per Dante che parte dalla selva oscura; noi partiamo da una strada dissestata, eppure è proprio qui che dobbiamo munirci dei migliori mezzi per affrontare il presente ed il futuro».

Certo la pandemia ha scoperto una sorta di vaso di Pandora che, in realtà, in molti conoscevano ma hanno tenuto sempre lontano dai post sui social, dai tavoli del Ministero, dalle riviste e dai siti specializzati, dagli assessorati competenti, persino dalla stessa comunità scolastica a volte. È la vera distanza sociale, quella creata non da un male ignoto, ma da un virus ben più diffuso da anni, già denunciato da Don Lorenzo Milani, quello di una scuola per pochi anche quando si mostra per tutti, cioè presente e distante allo stesso tempo: «Se si perde loro (gli ultimi) la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati».

Dobbiamo essere onesti intellettualmente nell’affermare che la dispersione scolastica c’era ugualmente e i problemi di connessione o di device pure, solo che ci si faceva caso appena, poiché la presenza in aula – pur saltuaria spesso – copriva per la maggior parte quelle mancanze. Restavano questioni legate ad alcuni casi in certe scuole, cosiddette di periferia, lasciate all’impegno generoso e competente di ottimi colleghi che facevano pure da assistenti sociali. Insomma, perché a questi ragazzi non ci abbiamo pensato tutti prima ed in tempo di pace? Non era comunque grave che, nell’era di internet, fossero costretti a esserne fuori o ai margini, al massimo cibandosi delle briciole dell’uso dei social, tra l’altro senza un’educazione specifica e quindi ad alto rischio? Visto che la didattica a distanza ci accompagnerà ancora e persino alla ripresa della scuola, in questi mesi non sarebbe il caso che ogni scuola censisse con moltissima cura quegli studenti che hanno mostrato difficoltà per tali ragioni, creando a stretto giro un tavolo di lavoro con le istituzioni locali per superare il problema in vista di settembre? Non è solo una questione di denaro e di strumenti, ma di avere un progetto e persone adeguate ed attente, non burocrati bensì educatori ed esperti nel sociale che abbiamo visioni di futuro!

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