In ricordo della visita di Giovanni Paolo II ai Cantieri navali di Palermo

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Proseguiamo la riflessione sul lavoro e il messaggio di Giovanni Paolo II sul tema, con un appassionato ricordo di Pietro Gelardi già dirigente regionale della Cisl siciliana, sulla Enciclica Laborem Exercens e la visita del papa polacco ai Cantieri Navali di Palermo il 21 novembre del 1982.

Di Pietro Gelardi

Missionario instancabile, pellegrino ubiquitario, di cui si contano 104 viaggi all’estero, Giovanni Paolo II fece in Sicilia cinque visite pastorali. La più nota e memorabile è del maggio 1993, quando ad Agrigento lanciò l’anatema contro la mafia, un grido sgorgato dal cuore che ebbe eco ovunque: “Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”. Un anno dopo i cittadini di Catania saranno chiamati a sollevarsi e a “stare in piedi”, contro l’umiliazione di essere additati “come abitanti di una città degradata e violenta, dominata dalla criminalità, rassegnata e resa invivibile”, e gli ospiti del carcere minorile “Bicocca” saranno esortati a “non cedere alla mortificazione offensiva del male e a non lasciarsi coinvolgere nella spirale dell’odio che spegne la gioia della vita”. “Non perdete mai la speranza, anche dal male si può costruire il bene”.

Negli stessi giorni il papa consacrò a Siracusa il santuario della Madonna delle Lacrime. Era già andato a Messina e Tindari nel 1988, e verrà a Palermo a novembre del 1995 per il Convegno delle Chiese italiane.

Il primo viaggio nell’isola risaliva a novembre del 1982.   Due giorni, il 20 e il 21, in cui il Papa si recò nella Valle del Belice, nei luoghi del terremoto, e a Palermo con un calendario denso di appuntamenti: amministratori e cittadinanza, docenti universitari, studenti, sacerdoti, religiosi e seminaristi, religiose, confraternite e movimenti ecclesiali, giovani, ammalati, comunità italo-greco-albanese, facoltà di teologia e una messa finale alla Favorita. Per noi della Cisl territoriale, fu molto significativo l’incontro con gli operai dei Cantieri Navali.

Avevamo stampato e diffuso tra gli iscritti un opuscolo in cui si riportavano passi dell’enciclica Laborem Exercens e un breve commento. La copertina riproduceva un dipinto amatoriale; in primo piano si guardano il papa, col pastorale e in paramenti sacri, e un dirigente sindacale in abito scuro, con in tasca il giornale della Flm, la federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici. Intorno siepi di fichidindia e sullo sfondo bandiere, volti di operai e contadini, profili di petroliere, monumenti, il monte Pellegrino.

Il quadro piacque, perché incarnava nella sua oleografica ingenuità l’amicizia e la gioia unanimi, e insieme l’orgoglio e il senso di appartenenza, con cui i lavoratori accolsero l’evento, rendendo omaggio a un fratello e collega che, da seminarista clandestino sotto l’occupazione nazista, era stato operaio in una cava e in fabbrica. Divenne il manifesto di saluto di Cgil, Cisl, Uil locali. Mio padre volle incorniciarlo e appenderlo nell’ingresso di casa, come una sorta di ex voto.

L’incontro ai Cantieri fu festoso, i lavoratori e le loro famiglie, mamme, nonni, bambini col vestito buono, applaudirono il papa, e corsero per toccarlo, stringergli la mano, ricevere una carezza mentre si allontanava benedicendo. Con grande soddisfazione, Il suo discorso diede ragione alla nostra scelta, di laica e convinta adesione al suo messaggio, e fece un richiamo esplicito all’enciclica.

Questa era uscita per il novantesimo anniversario della Rerum Novarum, seguiranno, in rigorosa continuità, la Sollicitudo Rei Socialis del 1987 e la Centesimus Annus del 1991. Ebbe un effetto dirompente, pari alle attese. A tutti era chiaro il significato di un documento che seguiva al ritorno di Giovanni Paolo II in patria, in una   Polonia sempre più insofferente alla dittatura, e alle parole pronunciate a Nowa Huta, l’amato quartiere industriale di Cracovia. Qui rievocò la sua esperienza lavorativa dove “aveva imparato nuovamente il Vangelo”, e dichiarò: “Il cristianesimo e la Chiesa non hanno paura del mondo del lavoro. Non hanno paura del sistema basato sul lavoro. Non hanno paura degli uomini del lavoro. Essi gli sono stati particolarmente vicini. Anch’egli è uscito di mezzo a loro”. (Del Rio, Karol il Grande, 2003). Parole di sfida al sistema comunista che pretendeva di basarsi sull’egemonia del lavoro e di glorificarla, e di sintonia col travaglio dei connazionali, da lui sostenuti, che avrebbero dato vita al sindacato libero e indipendente di “Solidarność”. Eresia intollerabile nel mondo sovietico, annuncio di una fine non lontana, ma allora considerato un azzardo sciagurato, quasi una violazione di sovranità, un‘interferenza indebita del Vaticano.

Nell’enciclica il lavoro figurava come tema centrale, perno di una riflessione svolta da un punto di vista inedito, quello del soggetto che lavora.  Il cambio di prospettiva spiega le novità, gli argomenti in cui si articola, le intenzioni che la muovono. Il lavoro, non astratta categoria sociologica o giuridica ma pratica universale che riguarda persone in carne e ossa, le loro fatiche, ansie, bisogni, aspirazioni.

Ai Cantieri, il Papa affermò col consueto vigore questa anima del lavoro, che “è un bene dell’uomo, un bene della sua umanità”.   Mediante il lavoro l’uomo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, e realizza sé stesso come uomo, “diventa più uomo”. La natura è nobilitata dal lavoro, e ciò rende insopportabile una diminuzione della dignità del lavoratore, implica piuttosto un suo elevamento.

Il lavoro degno di questo nome suscita fierezza e appagamento. Di fronte al varo di una nave costato disagi e sacrifici, ognuno può riscoprire il valore del suo impegno e dire: questo l’ho fatto io. Ma, dignità del lavoro è anche l’essere compiuto in funzione del bene da procurare alla famiglia e al prossimo. “Costruendo una nave o riparandola, voi costruite la vostra personalità, la vostra famiglia, la società tutta.”

Il lavoro è un’esigenza primaria, “insita da Dio creatore nella natura umana”. Più gravi ancora appaiono perciò le piaghe del lavoro insicuro, della disoccupazione, dell’emigrazione. Spetta alle istituzioni affrontare tale “questione vitale”.

Da ultimo un caloroso richiamo alla fede. Dopo avere incitato i lavoratori a conservare il “costume onorato” e tenere alta la tradizione di “tenace e geniale laboriosità”, il Papa ricordava che, come il contadino antico armato di sola zappa, il moderno operaio alle prese con tecnologie sofisticate “può e deve elevarsi a Dio con la mente e col cuore”. E citava la devozione degli operai per la Madonna Addolorata, la cui effige veniva portata in processione ogni anno, per San Giuseppe, la Sacra Famiglia.

Da poco i Cantieri erano sotto la gestione dell’IRI (Romano Prodi, allora presidente, presenziava; passeranno alla Fincantieri) e vivevano uno dei periodici momenti di crisi, con ridimensionamento di manodopera e riduzione delle commesse, e di auspici di ripresa malgrado la forte concorrenza estera, soprattutto asiatica. La venuta del Papa fu una ventata d’aria fresca, rinnovò l’interesse per la più importante realtà produttiva cittadina, fulcro di una base industriale deficitaria.

Il 1982 era fin lì stato orribile, segnato da centinaia di morti per mafia, a maggio Pio La Torre e l’autista, a settembre il generale dalla Chiesa, la moglie e l’agente di scorta.  “Fatti di barbara violenza che da troppo tempo insanguinano le strade di questa splendida città”, offensivi della dignità umana, li chiamerà il papa nel discorso alla cittadinanza e alle autorità a Piazza Politeama, come “le condizioni subumane di vita, le discriminazioni nei diritti fondamentali, le disuguaglianze e economiche e sociali”. Accenno discreto ai seri problemi di una comunità distante da livelli accettabili di convivenza ordinata e civile.

I motivi di interesse della Laborem Exercens erano molteplici, per chi dal versante della difesa del lavoro agiva in una città, in una regione, cariche di iniquità e soprusi ma decise a non rinunciare al proprio riscatto. Non hanno perso niente della loro efficacia, e non è facile riassumerli senza trascurare spunti e passaggi che meriterebbero approfondimenti specifici.

Sembra scontato ripeterlo, ma convincersi che all’origine del lavoro è l’uomo, che il “lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro” e va misurato col metro della dignità della persona che lo compie, suona vero proclama rivoluzionario, oggi più di ieri.

A dispetto della retorica sulla preminenza del fattore umano nei processi produttivi e sulla responsabilità etica dell’impresa, assurte a piacevole genere letterario e a stimata disciplina accademica, il panorama è desolato. Trionfano lo svilimento del lavoro, la sua immanente precarietà, una complessiva perdita di senso. Non per tutti, ovvio, e caso mai si propaganda il contrario. Del lavoro si vantano le gratificazioni, le opportunità, la creatività, i traguardi, i gradi di conoscenza e di innovazione (parola magica) che consentono di attingere, ma è un discorso a vantaggio di pochi, sempre meno. Titolari esclusivi di un mandarinato planetario, senza controllo, che manovra algoritmi, escogita applicazioni faustiane dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Pronto a governare il mondo come fosse una boccia di pesci rossi, o un falansterio di robot: braccianti intellettuali, votati a mansioni ripetitive e subalterne, provvisorie perché fungibili, eliminabili.

A sentire i futurologi più arditi sembra questo il destino dell’umanità. Sbaglieranno, ma se la tendenza non si inverte può essere il disastro. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri rimane spaventoso (l’allarme lanciato dalla Populorum Progressio è del lontano 1967), malgrado i fasti del mercato globale, che ha certo allargato le aree di benessere e di emancipazione dalla miseria ma ha causato sudditanze ed esclusioni, ha abbassato le soglie comuni di rischio, complice il saccheggio delle risorse naturali. L’incubo dei virus in grado di sconvolgere, a velocità inarrestabile, l’esistenza di milioni di esseri viventi nasce da questo accanimento, e ci proietta verso punti di non ritorno catastrofici.

Ha a che vedere ciò con il lavoro, con la negazione del suo valore fondativo per la libertà dell’uomo?  Pare incredibile ma non lo è tanto. L’inversione delle priorità, il rovesciamento della gerarchia costitutiva –  l’uomo non come fine ma come mezzo, merce buona per ogni consumo – ha ricadute devastanti. Provoca una reazione a catena, da esplosione nucleare, in cui non c’è scampo per gli individui né spazio per fughe nell’ autarchia sovranista. Abitiamo un microscopico, infinitesimo pezzo di galassia, un’aiuola secondo Dante, intasato e interconnesso in cui lavoro, sviluppo, pace, giustizia (e tutela dell’ambiente nella sua eccezione più esigente e “caritativa”, avverte papa Francesco) vanno coniugate all’unisono, oltre i confini tra nazioni, oltre l’autonomia e le competenze degli stati, oltre le divisioni fra classi, oltre le religioni e le razze.

Urge appunto una concezione alta, religiosa, salvifica dell’uomo, e del suo posto nella storia, che superi l’alternativa, un tempo obbligata, tra comunismo e capitalismo. Vitelli d’oro, specie antagoniste ma simpatetiche di idolatria, entrambe soggiogate da una visione materialista e monistica che respinge l’uomo in fondo alla fila, ne fa un oggetto residuale.

La caduta dei regimi dell’Est Europa, cui Giovanni Paolo II diede slancio risolutivo come a Mosca avevano presto capito, fu per lui una vittoria delle forze dello spirito contro quelle della materia, del regno del bene contro quello del male. Un segnale profetico, una conferma del coraggio e della giustezza delle sue intuizioni, un “mistero” e un “miracolo” che però non lo esaltarono. Lo indussero invece a una pacata valutazione sullo

stato del mondo, sul corso che gli accadimenti avrebbero preso dopo quella svolta epocale.

C’era da fermarsi e pensare, allargando l’orizzonte della ricerca. Anche la Chiesa aveva da imparare: “L’azione di Dio è diventata quasi visibile nella storia del nostro secolo attraverso la caduta del comunismo. Peraltro occorre guardarsi da un’eccessiva semplificazione. Ciò che chiamiamo comunismo ha la sua storia: è la storia della protesta contro l’ingiustizia. Una protesta del grande mondo degli uomini del lavoro che è divenuta ideologia. Ma tale protesta è divenuta anche parte del magistero della Chiesa. Basti ricordare la Rerum Novarum. Il magistero non si è limitato alla protesta, ma ha gettato un lungo sguardo verso il futuro. Infatti fu lo stesso Leone XIII a prevedere in certo senso la caduta del comunismo, il cui avvento sarebbe costato caro all’umanità e all’Europa, poiché la medicina – egli scriveva in quella sua enciclica del 1891 –  potrebbe rivelarsi più pericolosa della malattia stessa”. (Varcare la soglia della speranza, 1994).La Laborem Exercens è figlia del “dio che è fallito”, del suo schianto verticale; delle conseguenze, umili e ponderate, che Giovanni Paolo II trae alla luce della meditazione sulle scritture sacre e sugli insegnamenti dei predecessori, nel solco della dottrina sociale della Chiesa.

L’occasione gli è utile per riandare alla fonte, ripartire dalle radici bibliche.

Il lavoro con il quale gli uomini cercano nei secoli di migliorare le loro condizioni di vita corrisponde “al disegno di Dio”. L’uomo deve “soggiogare” la terra, in quanto persona che è “immagine di Dio”, cioè soggetto capace di “agire in modo programmato e razionale” e decidere di sé. Con il lavoro l’uomo “partecipa all’opera del Creatore, continua a svilupparla e la completa”. Questa coscienza deve permeare tutte le attività quotidiane.

Il primo capitolo della Genesi propone un “Vangelo del lavoro”, con Dio che presenta la sua opera creatrice “sotto la forma del lavoro e del riposo”, opera che “continua sempre”. Il lavoro non può esaurirsi “nel solo esercizio delle forze umane nell’azione esteriore” ma deve lasciare uno “spazio spirituale” che “prepara al riposo”.

Al lavoro si congiungono l’affanno e il dolore. Unita all’elevazione dell’immagine di Dio si perpetua nel lavoro la maledizione del peccato originale che contiene l’”annuncio della morte”. Sudore e fatica del lavoro ci allineano alla missione di Cristo, che è di salvezza a mezzo della sofferenza e della morte in croce.

L’uomo, col lavoro, collabora col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità e  “il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale Cristo ha accettato per noi la sua Croce”. Grazie alla luce che promana dalla resurrezione, nel lavoro “troviamo sempre un barlume della vita nuova”, del “nuovo bene”, come promessa “dei cieli nuovi e della terra nuova”

L’attesa della terra futura non è inerte, deve sollecitare a coltivare questa terra, a far crescere “quel corpo dell’umanità nuova” che prefigura e adombra il mondo nuovo”, dispone alla completa giustizia celeste.

Il lavoro è una chiave, è anzi “chiave essenziale”, di “tutta la questione sociale”. Qui l’enciclica entra nel vivo di vicende e teorie istituzionali, politiche, sindacali spinose, su cui si concentrano i critici meno avvertiti, meno pazienti o meno privi di fisse ideologiche. Coloro, per capirci, che giudicano le encicliche secondo regole e gusti sbrigativi per cui un papa è catalogato di destra, di sinistra, conservatore, avanzato, reazionario, anticomunista, anticapitalista, eversore, legittimista. Lo sa, e li tiene a bada, papa Francesco, cui tocca la doppia disgrazia di avversari interni molto scaltri e tifosi esterni fin troppo entusiasti.

Lasciando a ciascuno, come è giusto, di dedicarsi a una lettura serena e scrupolosa, diremo che riferimento costante dell’enciclica è la “sostanza etica” del lavoro, che ne fa un “dovere”, un “obbligo morale”, con scandalo di quanti ne pronosticano leggeri la fine, e un nucleo di diritti inviolabili.

L’uomo deve lavorare perché il Creatore glielo ha ordinato “per il fatto steso della sua umanità”, e “per riguardo alla propria famiglia, alla società, alla nazione, all’intera famiglia umana di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni, e insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui”.

Di contro, i diritti del lavoratore vanno considerati “nel vasto contesto dell’insieme dei diritti dell’uomo che gli sono connaturali”. Salvaguardali e promuoverli è compito degli stati nazionali e delle istituzioni internazionali, “datori di lavoro indiretti”, giacché il rispetto di essi costituisce “la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo”.

Ai governi spetta di condurre una politica del lavoro giusta, che tenga conto delle reciproche dipendenze fra gli stati e del divario fra paesi ricchi e paesi poveri. I diritti non possono essere un “derivato di sistemi economici, che su scala più larga o più ristretta, siano guidati dal criterio del massimo profitto”; debbono invece costituire “l’adeguato e fondamentale criterio della formazione di tutta l’economia sia di ogni società e ogni Stato sia dell’insieme della politica economica”. Le istanze nazionali e internazionali che orientano la politica del lavoro debbono porre attenzione al problema di “un’occupazione adatta a tutti i soggetti che ne sono capaci”, giovani in primo luogo; il rischio è infatti che il male della disoccupazione degeneri in “calamità sociale”. Accordi e trattati, in uno con la “pianificazione globale dell’organizzazione del lavoro” e la stretta collaborazione internazionale, dovrebbero prevedere analoghi diritti per tutti: “cosicché il livello di vita degli uomini del lavoro presenti sempre meno quelle differenze che sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni”.

La continua rivalutazione del lavoro (sotto il duplice aspetto delle sue finalità e del soggetto che opera) è “la più adeguata verifica del progresso dei popoli, nello spirito della giustizia e della pace”. Il mancato utilizzo e lo spreco di immense risorse naturali, che cozza con le schiere di disoccupati e di “sterminate moltitudini di affamati”, sono un “fatto sconcertante” cui rimediare con azioni di riequilibrio su scala generale.

Una prospettiva economicista che abbia l’obiettivo pressoché unico del profitto, o reputi insanabile il  conflitto tra capitale e lavoro,  è condannata allo scacco. C’è un materialismo pratico che calcola il lavoro secondo la quantità di beni di scambio erogati, e un materialismo teorico (filosofico e politico) per cui il lavoratore “è trattato in dipendenza di ciò che è materiale, come una specie di risultante dei rapporti economici di produzione dominanti in una determinata epoca”. Il lavoro separato dal capitale, come “un elemento qualsiasi del processo economico”, ha portato allo sfruttamento ignobile delle masse proletarie, con reazioni sociali legittime ma talora dannose e perdenti, quando non peggiorative.

Si battono questi errori ­- del liberismo capitalista onnipotente e fuori misura, e del marxismo rivoluzionario sconfitto dalla storia –  con un cambiamento che superi la falsa “antinomia tra capitale e lavoro” in nome della priorità del lavoro e “proceda su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell’uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione”.  Quell’insieme è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. “Tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato attuale della tecnica – il suo ‘strumento’, sempre più perfezionato, è frutto del lavoro”.

Non è l’indicazione di una terza via, di un centrismo equidistante dagli estremi, o la conversione a un laburismo romantico e corporativo, come molti hanno voluto supporre, piegando la lezione dei pontefici a logiche partigiane. La chiesa non ha modelli da proporre: “I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti  i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti gli aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro”. Offre orientamenti ideali che mirano al bene comune, ribadisce la Centesimus Annus, sulla scia della Gaudium et Spes. Conviene ricordarlo, a laici e a presbiteri: a ciascuno il suo mestiere e la sua pena.

Il lavoro non è quindi separabile dall’uomo e dai mezzi di produzione, che gli appartengono. Non è un’avventura solitaria, non divide, “ha come sua caratteristica che, prima di tutto, unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale, la forza di costruire una comunità”.

L’unione degli uomini per la garanzia dei propri diritti “rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere”. I sindacati sono un vettore, “un esponente della lotta per la giustizia sociale”. Quando l’iniziativa non degenera in “egoismo di gruppo”, ostile agli interessi collettivi, essi hanno ragione di lottare anche “per correggere tutto ciò che è difettoso nel sistema dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli o di disporne.”

Vasto programma, si obietterà, che ha nondimeno il pregio di liquidare un’idea riduttiva, contrattualista e rivendicazionista della strategia sindacale. Idea secondo cui il sindacato va relegato a un ruolo di mero agente salariale, e non è abilitato a disturbare il manovratore, a chiedersi dove dirige la macchina, come e con chi. Accedere alla gestione delle imprese, parteciparvi, contribuirvi dal di dentro, assumerne i rischi è meta praticabile. Le encicliche sociali la giustificano e la incoraggiano in nome dei principi di umanità del lavoro.

Ma anche qui non si danno istruzioni pratiche. Si rimane nell’ambito di indicazioni etiche e dottrinali, e questo deve bastare. Così bastava e avanzava, a noi cislini del 1982, il rimando alla valenza politica dell’attività sindacale, accusata a torto di invasione di campo. Se per politica s’intende la “prudente sollecitudine per il bene comune”.

Era un avallo prezioso, una spinta formidabile a sentirci protagonisti e a proseguire nel cammino con l’energia che serviva.

 

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