Per una Teologia mediterranea dell’accoglienza 1

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di Francesco Inguanti

È da poco giunto in libreria un libro con due contributi, uno di Corrado Lorefice e l’altro di Vito Impellizzeri che offre una interessante lettura del fenomeno migratorio dal punto di vista teologico. Pubblichiamo oggi la recensione del primo, quello a firma dall’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice.

Vi sono almeno due modi di giudicare il fenomeno dell’immigrazione.

Il primo, il più tradizionale, è quello legato alla mancanza di sicurezza dei migranti, dipendente quasi sempre da guerre e conflitti di vario genere che si svolgono nei loro paesi di origine. Il secondo è di natura economica; i popoli su muovono, da Abramo in poi, per cercare condizioni di vita migliori. In entrambi i casi le popolazioni che dovrebbero accoglierli vedono nei migranti un pericolo perché attentano alla loro sicurezza o al loro benessere.

Il libro di Vito Impellizzeri e Corrado Lorefice: “L’ospite porta Dio tra di noi. Teologia mediterranea dell’accoglienza”, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2021, offre un punto di osservazione e di giudizio diverso, certo più impegnativo, ma sicuramente più utile: quello della teologia.

Ciò è affermato con chiarezza fin dall’incipit del libro, nella parte curata da Corrado Lorefice, dove si legge: “Scrivere del migrante come categoria teologica, senza cadere alle lusinghe di un genere letterario di moda, significa coraggiosamente avviare una riflessione credente che sia da un lato, una creativa e critica recezione conciliare della teologia dei segni dei tempi …e della ecclesiologia della Chiesa povera … ; dall’altro però, significa fare un passo avanti, sulle orme del Concilio e in sintonia con il cambio paradigmatico del magistero di Francesco…”

Il tema vasto e articolato è affrontato nel libro in due parti: la prima, a cura dell’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, dal titolo: “Fino ad avere lo stesso pensiero e gli stessi sentimenti dei migranti morti in mare. Una lettura teologica della condizione umana” e la seconda dal titolo “Compito dialogico della teoria cristiana delle religioni”, di Vito Impellizzeri, Docente di Teologia nella Pontificia Facoltà di Sicilia.

Per svolgere il tema Corrado Lorefice utilizza il contenuto dell’omelia che papa Francesco fece nella sua ormai famosi visita a Lampedusa l’8 luglio del 2013 producendo un approfondito e dettagliato commento che pur essendo di natura teologica è di facile e immediata comprensione.

Egli muove innanzitutto dal descrivere il contesto culturale ed ecclesiale in cui l’evento si verificò. “Oggi a più di 50 anni dal Concilio, dentro l’epoca del cambiamento, le cose sono nuovamente cambiate. L’ateismo non è considerato più la maggior sfida culturale del cristianesimo, ma viene di fatto affiancato, se non superato, dalla questione del pluralismo religioso, e in Occidente anche dal diffuso secolarismo e relativismo, fino alla diffusa indifferenza religiosa e alla chiara marginalità sociale dei discorsi cristiani della fede. Molti, a ragione, parlano della fine del regime culturale di cristianità. Oggi, accanto a tutto questo, emerge la novità del mondo digitale e dello sviluppo tecnologico, fino alla cosiddetta intelligenza artificiale dei nostri giorni”.

Questo il punto di osservazione da cui muove Lorefice per cogliere nell’omelia del Papa “la categoria teologica del migrante”. Il punto di partenza in questo percorso è l’individuazione “dell’antropologia del migrante” che nasce non appena dalla ricerca di un futuro contro un passato da dimenticare, bensì: “Si fa carico, al contrario, di una storia di casa, di famiglia, di paese, e cerca di diventare lui la speranza che sostiene la lotta degli affetti – i suoi – rimasti a casa. … La sua valigia è la memoria. ‘Immigrato’ è una categoria antropologica di popolo”.

Vi è poi una seconda categoria da evidenziare, quella racchiusa nella parola “Morti”. Scrive Lorefice: “Dentro questa parola disperata, morte, alcuni pregano, altri piangono, altri ancora ammutoliscono. Tuttavia, proprio in ascolto dei morti, … si percepisce il mormorio leggero della speranza nella resurrezione. È un genito umile e sussurrato, che chiede che l’ingiustizia venga sconfitta, che la morte venga annullata e che la libertà e la dignità vengano restituite all’umano, a tutti gli esseri umani. La resurrezione proprio in prossimità del morire, diventa il soffio leggero e l’attesa silente di chi sta diventando cadavere”.

Altra parola chiave nell’omelia di Francesco è “Mare” cui se ne collega subito un’altra “Barca”. Lorefice così commenta: “L’icona della barca resta determinate per una Chiesa segno e sacramento di speranza per l’intera umanità. Francesco, …, scende a Lampedusa per salire sulla barca della Chiesa e indicare chiaramente che la morte, ingiusta ora della storia, non è l’ultima parola per questi figli che attendono la resurrezione.” A tal proposito Lorefice ricorda che molti di quei morti non hanno nome, ma chiede che “Dio non li risorga in nome della loro morte, ma in ragione del loro nome, cioè della loro vita. … La restituzione del nome è una piccola resurrezione: è la possibilità che i loro cari possano tornare a piangere, e mostrare la storia che il loro sacrificio non è stato vano. È stato ingiusto, ma non vano”.

A questo punto siamo giunti al cuore dell’omelia di Lampedusa, che si può sintetizzare in “due-parole domande”. Sono quella che Dio pone nell’Eden ad Abramo: dove sei? E che Dio pone a Caino: che ne è del sangue del fratello? Da queste premesse nasce il grande tema della fraternità, perché il sangue di Abele non è “quello di un nemico, di un concorrente, di uno che vorrebbe rubargli il suo sostentamento, che è un pericolo, un rischio, e quindi va eliminato”. Lorefice lo spiega con queste parole: “… l’uomo non dovrà mai lottare con il fratello per avere il nome di Dio. Dovrà piuttosto amarlo, perdonarlo e aiutarlo perché amandolo si fa esperienza del nome di Dio che è relazione, che è amore che si rende partecipe proprio nel fratello”.

Da qui al tema dell’alterità il passo e breve: Perdere l’alterità per uccisione o per esclusione non rafforza un processo di identità personale; senza l’altro, il fratello, nessuno può essere se stesso, neanche come figlio .… la responsabilità è il compito della fraternità”.

Nella sua omelia il Papa a questo punto apre il grande scenario dei segni dei tempi (che Lorefice ha anticipato nell’incipit) e del giudizio. Francesco è ben consapevole del disorientamento che c’è nella società e nella Chiesa, senza dimenticare che da quel giorno ad oggi esso è notevolmente aumento per tante scelte politiche che non hanno sortito effetti almeno parzialmente solutori. Il percorso additato dal Pontefice giunge ad una duplice conclusione: il segno del grido del sangue innocente e l’assunzione di responsabilità diretta nell’ora presente. Ecco come commenta Lorefice: “Qui il discernimento si fa profezia, si fa denuncia. Si fa grido”. Il richiamo papale è l’attenzione all’umano che troverà piena esplicitazione negli anni successivi nell’Enciclica Laudato sii. Ecco perché la domanda sul sangue del fratello da Caino si trasferisce a ciascuno di noi. Perché ciò accade? Per Lorefice è necessario “…fare memoria delle ragioni di speranza che hanno spinto i nostri fratelli a lasciare le loro terre, le loro case, le loro povere sicurezze, i loro familiari, per partire”. E senza sottrarsi alle posizioni di quanti ritengono che il problema sia solo politico dice con maggior chiarezza: “Leggere i segni dei tempi vuol dire raggiungere i sentimenti e i pensieri dei migranti: vuol dire in-altrarsi, diventare l’altro che è migrante. Vuol dire svuotare un’ermeneutica interpretativa del fenomeno da logiche solo economiche, finanziarie, politiche. Non perché non siano anch’esse importanti, ma perché queste da sole non bastano, non ci conducono al cuore del migrante, che è dentro il cuore del problema”.

Eccoci giunti al cuore del problema: di chi è la colpa? Lorefice, seguendo il filo dell’omelia papale, non si sottrare e risponde: “Al tribunale della storia la comunità cristiana si costituirà parte civile in difesa dei migranti: noi stiamo e staremo sempre dalla parte delle vittime, perché tra di esse c’è il Cristo, il Figlio di Dio, l’umano kenotico, divino per grazia, di ogni migrante. Il migrante è mio fratello e il suo sangue innocente di vittima di questa storia è il mio stesso sangue, e il suo sangue è lo stesso sangue di Cristo”.

Il passo ermeneutico successivo, già anticipato, riguarda l’avvento del giudizio. Con estrema chiarezza Lorefice afferma che: “occorre riconoscere ora, finalmente, il farsi presente il Cristo nell’oggi della storia non solo in modo sacramentale, ma anche in modo pauperale, facendo del povero e del migrante un sacramento di fraternità, un sacramento esistenziale”.

Il passaggio decisivo può essere racchiuso in questa domanda: come raggiungere il cuore del Vangelo attraverso il sangue del fratello e il pianto della madre? Scrive l’Arcivescovo: “Colui la cui coscienza è stata risvegliata dalla luce del Vangelo e dal grido dei poveri, non può che chiedere perdono del peccato d’indifferenza e del peccato di mancanza di responsabilità”.

Ed ecco che quando l’omelia sembra giungere al termine papa Francesco aggiunge altre tre parole a lui molto care: grazie, esempio e tenerezza.

Rileggere l’omelia di Lampedusa dopo otto anni aiuta a comprendere molti altri interventi svolti dal Papa in molteplici circostanze, fino a quanto affermato in occasione del suo recente viaggio in Iraq. Lorefice la definisce “un disegno preparatorio di un grande affresco”. Ed aggiunge a maggior chiarezza: “Papa Francesco da Lampedusa continua a dare impulsi iniziali ad un processo che non è quello di esecuzione dell’agenda del suo pontificato, come si usa affermare, ma piuttosto la chiamata ad ‘uscire dalla propria comodità ed avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie’ geografiche ed esistenziali, bisognose della gioia e della luce del Vangelo”.

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