Non basta scomunicare i mafiosi, bisogna accompagnarli nella vita della Chiesa

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di Francesco Inguanti

Sintesi Dialettica è una rivista online di cultura che valorizza il libero pensiero, l’educazione, l’istruzione, lo spirito critico per promuovere l’identità democratica e contribuire al progresso civile, secondo libertà, giustizia e crescita culturale del cittadino. Del Comitato scientifico composto da 14 autorevoli personalità fa parte anche l’Arcivescovo Michele Pennisi.  A lui abbiamo posto alcune domande.

Ci dice innanzitutto chi sono questi 13 personaggi?

Il Cardinale Silvano M. Tomasi, che è il presidente del Comitato, Lucia Annunziata, ‎‎‎‎Rosy Bindi, ‎‎Massimo Bray, Raffaele Cantone, don Luigi Ciotti, Paolo Conti, Raffaele Grimaldi, mons. Francesco Oliva, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino Giarritta, Sergio Rizzo e Claudio Striani. Il direttore è Vittorio Alberti.

Ci pare una compagine alquanto eterogenea, o sbagliamo?

È esattamente così. Sono persone provenienti da diversa ispirazione ideale e dotate di molteplici esperienze formative.

E quando è nata?

È nata nel 2007 come rivista di filosofia e storia politica, ma si è di recente rinnovata attorno a un gruppo di lavoro riunito per combattere la corruzione e le mafie.

Quindi la sua partecipazione ruota attorno a questo tema?

A me è stato chiesto uno specifico contributo su questo tema, ma la rivista, però, non è di settore, ma di cultura generale.

E perché?

Perché il contrasto a mafie e corruzione deve iniziare molto prima che esse si manifestino; non basta solo un impegno repressivo, ma occorre lavorare innanzitutto nella società, lì dove nascono i germi che poi si sviluppano.

Partiamo dalla corruzione. Poco più di un anno fa, insieme all’allora Prefetto di Catania Claudio Sammartino, ha presentato un libro dal significativo titolo: “Dialogo sulla corruzione. Giustizia e legalità, impegno per il bene comune”.  Quale era la tesi dell’opera?

Proprio quella che ho sinteticamente accennato e cioè che bisogna intervenire a monte del fenomeno e non quando esso ha messo radici profonde. E poi in questo impegno, Chiesa e Stato e società civile devono lavorare insieme altrimenti la partita è inesorabilmente persa.

E a distanza di un anno cosa si può aggiungere?

Apparentemente, ma solo apparentemente, poco o nulla. Ma la pandemia – con le emergenze che ha provocato – è una grande novità, delle cui conseguenze ci renderemo più dettagliatamente conto avanti. Basta solo ricordare che la straordinarietà di ogni circostanza porta con sé il convincimento, non sempre giusto, che si possano violare o aggirare le leggi per conseguire un risultato, che magari si reputa buono. Ecco perché bisogna intervenire subito, prima che ciascuno si convinca che tutto o quasi diventa lecito.

Nella prefazione del recentissimo libro di Vincenzo Bertolone Rosario Angelo Livatino. Dal “martirio a secco” al martirio di sangue papa Francesco parla degli Erodi del nostro tempo, che sono: “quelli che, non guardando in faccia all’innocenza, arruolano perfino gli adolescenti per farli diventare killer spietati in missioni di morte”. E più avanti aggiunge: “Grido di dolore e al tempo stesso di verità, che con la sua forza annienta gli eserciti mafiosi, svelando delle mafie in ogni forma l’intrinseca negazione del Vangelo, a dispetto della secolare ostentazione di santini, di statue sacre costrette ad inchini irriguardosi, di religiosità sbandierata quanto negata”. È ancora questo il rapporto tra religiosità e mafia?

Innanzitutto va ribadito che la religiosità dei mafiosi è funzionale ai loro progetti di potere, ed è usata per accrescere la propria legittimazione sociale. Poi va precisato che si tratta di una “religione capovolta”, una sorta di “sacralità atea” che poco ha di religioso e di religione. La religiosità dei mafiosi ha un peso in una società che abbia forme di religiosità. Essi mostrano interesse per i simboli e le manifestazioni religiose lì dove essi ancora contano.

E non è più così?

Potremmo dire forzando un po’ il discorso che c’è una laicizzazione anche della “cultura” mafiosa. Molti stereotipi della “famiglia mafiosa” oggi non reggono più e nuovi “prototipi” più laici tendo a prendere il sopravvento. Alcune manifestazioni della pietà popolare sono utili se servono per una ostentazione di potere, di acquisizione di consenso sociale e di onorabilità ecclesiale.  In realtà queste manifestazioni pseudo religiose non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento dei valori evangelici.

Sempre nello stesso testo il Papa affronta il problema del perdono e parlando proprio del giudice Livatino scrive: “Egli pensava, fin da laureato in diritto, al modo migliore di svolgere il ruolo di giudice. Soffriva molto nelle pronunce penali nei confronti degli imputati, perché constatava come la libertà, male interpretata, avesse infranto la regola della giustizia. E nello stesso momento in cui doveva giudicare secondo legge, si poneva da cristiano il problema del perdono”. Quale rapporto lega questo tema con quello dei mafiosi?

Il tema è molto complesso, ma semplificando alquanto possiamo dire che ha due facce. La prima riguarda la società attuale, quella nella quale l’affronto del tema del perdono sembra essere scomparso è sostituito con un approccio più politicamente corretto volto a raggiungere uno scoop tutto zucchero e miele e finalizzato all’happy end finale. Detto in altri termini: si tenta di sostituire la drammatica parola “perdono” con altre più edulcorate: scuse, rammarico, passo verso l’altro, ecc. In tal modo si acquietano le coscienze nel nome dell’ormai trito slogan: “andrà tutto bene” evitando accuratamente di dire dove si andrà e quale sarà il bene atteso.

E l’altra faccia?

È quella del perdono cristiano, quello che Cristo ha portato con una misura più grande e più forte di quella degli uomini, in grado di giungere lì dove gli uomini non possono giungere, la cancellazione del male commesso. Questa impostazione cozza con la nostra concezione della legge ed anche con tanta retorica sulla educazione alla legalità.  In un suo testo don Luigi Giussani lo spiega così: “Il perdono è innanzitutto una riduzione a nulla di tutto il male che ho fatto. Ma anche di tutto quello che farò, perché fra un mese, tra un anno, formalmente dovrei dire lo stesso di oggi. … Il padre e la madre, di fronte al bambino piccolo, perdonano continuamente, debbono perdonarlo continuamente perché cresca. E non ci sarà mai fine a questo perdono, anzi dovrà aumentare col tempo che passa”.

E quel è il compito e la responsabilità della Chiesa?

Nello svolgere il compito che ho appena delineato deve esprimere un rinnovato impegno educativo che porti a un cambiamento della mentalità e dei comportamenti concreti. Bisogna a questo punto analizzare criticamente il fatto che, spesso, vari mafiosi si ritengono membri della Chiesa a pieno titolo, nient’affatto fuori della sua comunione, nonostante la loro appartenenza a quella “struttura di peccato” che è la cosca mafiosa.

A questo punto entra in campo la questione della scomunica. O no?

Anche in questo caso c’è un aspetto pubblico da distinguere da quello religioso. È innegabile che la società amerebbe avere ogni mese un elenco dei mafiosi oggetto di scomunica. Una sorta di “Sbatti il mostro in prima pagina” come il titolo di un film di tanti anni fa. Ma ciò richiederebbe una legge penale di carattere universale, che dovrebbe contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile, appunto perché il fenomeno assume oggi contorni globali.  Ma questo non è l’interesse della Chiesa.

E allora?

Se non si aiutano tutte le persone, e quindi anche i mafiosi, a recuperare il senso dell’appartenenza alla Chiesa, l’esclusione giuridica dalla comunione ecclesiale, inflitta con una sanzione canonica, rischierà di essere non compresa – prima ancora che temuta o contestata –. In una società secolarizzata come la nostra, è importante far prendere coscienza dell’appartenenza ecclesiale, mettendo in chiaro che c’è una scomunica di fatto che entra in vigore, anche a prescindere dalla scomunica comminata con un decreto giuridico: consiste nell’auto-esclusione dalla comunione con il Signore e con i suoi discepoli, cui si “condanna” chi preferisce incancrenirsi nell’appartenenza alla mafia.

E più in concreto?

Alla comunità cristiana si richiedono dei gesti originali che facciano superare la concezione della pena di carattere retributivo o vendicativo, e che interpellino cattolici e laici ad interrogarsi sulle modalità di una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso impegnandosi per la diffusione di una cultura della legalità e all’educazione a non fare del denaro e della ricerca smodata del potere gli idoli a cui sacrificare tutto a partire dalla vita delle persone.

Sì, ma lei e qualche Vescovo siciliano, siete intervenuti con specifici provvedimenti contro i mafiosi?

Si, certamente. Impedire il loro accesso alle Confraternite, evitare che facciano da padrini nella amministrazione di alcuni sacramenti, non assicurare le esequie religiose, si può e si deve fare. Ma queste scelte private dell’esperienza alla comunità ecclesiale provocano ancora più odio verso la Chiesa. Ecco perché la parola da ripetere sempre è “accompagnamento”. Ma questa richiede tempo, discrezione, pazienza da parte di tutti.

 

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