La centralità della dimensione umana in Rosario Livatino

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di Giovambattista Tona

Quali possono essere gli abiti di un martire dei tempi nostri?
“Camiciola a mezze maniche di colore azzurino con disegni a quadri di media grandezza e cravatta rosso scuro a disegni”.
“…Non indossava la giacca, che si vede appesa nell’apposito gancio posto nella zona posteriore della sua auto”
“…al suo interno, oltre alla giacca… vi era una borsa di pelle posta sul pavimento dietro il sedile di guida”
E su che auto viaggia un martire dei tempi nostri?
“…la sua Ford Fiesta (non di ultimo tipo, come emerge dalle fotografie), di colore amaranto, targata AG 174248”.
“Il 21 settembre 1990, alle ore 8,45 circa, il dott. Rosario Livatino … da Canicattì si recava come di consueto ad Agrigento”
“Egli aveva abitato ed abitava stabilmente in Canicattì con i suoi genitori (era celibe) conducendo una vita ritirata. Si recava agli uffici giudiziari di Agrigento quasi quotidianamente secondo le esigenze di ufficio con la sua auto percorrendo la statale 640”.
Indossava la cintura di sicurezza, che per questo “era squarciata all’altezza della spalla sinistra del guidatore verosimilmente per colpi di arma da fuoco”.
“…Proprio il giorno in cui fu ucciso si stava recando in udienza per definire processi già incardinati dal Collegio giudicante di cui faceva parte e per tale motivo aveva postergato l’inizio delle ferie”.
Sono le parole della sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta che il 13 aprile del 1994 ha confermato la prima condanna di due degli esecutori materiali dell’omicidio di Rosario Livatino, colui di cui è stato riconosciuto il martirio con il Decreto della Congregazione della Causa dei Santi del 21 dicembre del 2020: “Servo di Dio”, “Fedele Laico”, “ucciso in odio alla Fede”.
Servo di Dio e servitore dello Stato.
Livatino aveva svolto il ruolo di Pubblico ministero per dieci anni dal 1979 fino all’agosto 1989; da un anno svolgeva le funzioni di Giudice del Tribunale.
Nell’Istituto delle Suore Vocazioniste di Canicattì il 30 aprile 1986 aveva tenuto una conferenza sul tema “Fede e diritto”.
“Alla prova dei fatti”, disse, “queste due realtà sono continuamente interdipendenti, in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte a un confronto armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”.
Livatino parlò della “fede come istanza vivificatrice dell’attività laica di applicazione delle norme”.
“Laico” doveva considerarsi il compito del magistrato, che era quello di decidere. E “decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”.
Comincia con queste parole quella che, secondo Mons. Domenico De Gregorio, storico della Chiesa agrigentina, “è da considerarsi come una vera e propria confessione sul modo in cui il giudice Livatino esercitava il suo compito, realizzava la sua missione che, in coerenza con le idee che la nutrivano e sostenevano, trasformò lui, giudice, in testimone, cioè in martire della verità, della giustizia, del dovere e anche dell’amore”; una “confessione” da rileggersi, dopo la sua morte per mano mafiosa, con maggiore consapevolezza rispetto a coloro che lo ascoltarono quando fu pronunziata e che “poterono pensare si trattasse di una serie di belle e intelligenti considerazioni astratte, o anche di ideali da contemplare e vagheggiare, ma ben lontani dalla scarna, penosa prassi quotidiana”.
Livatino parlò del magistrato credente e del magistrato non credente; non si vantò di essere credente e peraltro in tutta la sua relazione mai parlò di sé né usò formule un po’ ammiccanti come il “noi cattolici” con il quale talvolta alcuni oratori si accreditano con chi li ascolta per la comune professione religiosa.
Nel suo diario aveva già scritto la frase alla quale oggi tutti associamo la figura di Livatino e che allora nessuno conosceva: “quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma credibili”.
E per questo non aveva nessuna intenzione di stare a sottolineare una condizione, l’essere credente, di cui non gli sarebbe stato chiesto di rendere conto.
“Proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
La fede quindi precede la fedeltà del Servitore dello Stato, ma non si pone in antitesi con essa. Anzi nel servizio allo Stato riesce a manifestare i suoi frutti; nelle decisioni del giudice si realizza il rapporto con Dio anche attraverso la cura e l’amore per gli uomini. Non una fede solamente proclamata, non l’adesione ad una Chiesa “soltanto per dar lustro col suo prestigioso distintivo al bavero della propria giacca”, come scrisse Livatino a proposito di un’altra adesione (ma ad un club service) alla quale cortesemente si sottrasse. Piuttosto, un impegno vissuto che nella concretezza trovava la trascendenza.
La fede del magistrato non la considerava un riferimento etico esclusivo e da vero laico riconosceva che nel praticare il bene non ci sono monopoli.
“Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale”.
C’era però qualcosa che rendeva ecumenico l’esercizio del decidere e che era d’obbligo per ogni magistrato, credente o non credente: “dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia”, “avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia”, essere “proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.
Al centro del lavoro dell’operatore del diritto per Livatino quindi c’era sempre il rispetto per la persona.
E la centralità della dimensione umana era per lui un punto fermo in ogni attività e in ogni evento.
Il 9 maggio 1978, quando aveva già vinto il concorso in magistratura, ma ancora lavorava presso l’Ufficio del registro di Agrigento come vicedirettore in prova (il primo concorso che aveva superato), Livatino commentava sul suo diario, dove fino ad allora aveva annotato solo fatti personali, la notizia del rinvenimento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani. Aveva già definito il rapimento del Presidente del Consiglio “un momento gravissimo per la vita politica nazionale”. Ma quando quella tragedia si concluse, egli scrisse: “l’unica cosa che veramente mi occupa il pensiero è la tragedia personale dell’uomo”.
Questa era la visione con la quale Livatino si confrontava con gli eventi della sua storia e con la quale svolgeva la sua funzione di magistrato, umile ma inflessibile, severo ma proteso verso l’uomo, riservato nell’esercizio del culto ma riconoscibile nella pratica della fede.
Poiché credente, svolse il suo lavoro in modo che tra le persone inserite nella criminalità organizzata, sebbene battezzati come lui, suscitò ripulsa e odio.
Era un magistrato di provincia che poteva essere avvicinato facilmente perché era cresciuto nello stesso ambiente delle donne e degli uomini di cui si doveva occupare. Condivideva e conosceva la cultura agrigentina e siciliana, quella che aveva creato santi, eroi civili e grandi letterati, ma anche storture, devianze, organizzazioni mafiose. Certamente percepiva come, nel crinale vivace e complesso degli anni “80, stavano mutando le forme di accaparramento violento delle ricchezze e del controllo del territorio.
Dell’analisi del contesto che aveva elaborato non ha lasciato una testimonianza scritta, ma nelle sue agende si trova traccia della consapevolezza del valore strategico di alcune sue indagini, appuntate e qualificate con pochi aggettivi: “terribile e demoralizzante” oppure più semplicemente “pericoloso”.
Nel suo ideale di magistrato terzo, Livatino non aveva dato centralità alla distanza, che può anche essere sinonimo di indifferenza e l’indifferenza può finire per coincidere con la mera insensibilità, ma aveva sottolineato la capacità di essere “proteso a comprendere”. E in questo la richiesta di sostegno a Dio, ricorrente nei suoi appunti, si traduce nell’invocare l’ausilio di quella luce che occorre per capire e quindi poi per giudicare.
“Per giudicare occorre luce e nessun uomo è luce assoluta”, disse ancora nella sua relazione su “Fede e diritto”.
Livatino capiva meglio la realtà perché veniva dalla stessa comunità di cui si sentiva servitore e perché la osservava con una luce in più, che gli faceva vedere più di quello che altri vedevano e che lo sosteneva nel continuare a guardare ciò da cui altri cercavano di rifuggire lo sguardo.
Così riusciva con lungimiranza a dare il giusto peso a tutte le indagini, trattandole tutte con attenzione e profondendo le sue energie sia sui fatti più eclatanti sia su quei piccoli reati, che poi erano le spie dell’illegalità diffusa, terreno fertile per il radicamento di mafia e corruzione e per ogni forma di prevaricazione dell’uomo su un altro uomo.
Livatino è stato ucciso dalla mafia; da alcuni giovani esponenti di un gruppo che voleva soppiantare nell’agrigentino i dirigenti di “cosa nostra” dell’epoca e prenderne il posto.
L’esponente di vertice di questo nuovo gruppo a Canicattì, che non sopportò una severa condanna per aver detenuto insieme ai suoi complici armi utili ad azioni di fuoco, convinse i suoi alleati di Palma di Montechiaro che Livatino voleva bloccare la loro ascesa e favorire gli attuali dirigenti di “cosa nostra”, uno dei quali era suo vicino di casa.
Non era vero: i processi accertarono che con i suoi provvedimenti Livatino aveva colpito anche gli avversari dei suoi assassini e proprio il suo vicino casa parlava di quel giudice con i propri alleati come “di uno scimunito, un personaggio che andava in chiesa a pregare… un santocchio”, sottolineando che “pu ‘nvirillo cchiù a Livatino” fece chiudere una porta che dava su un pianerottolo comune a quello dell’appartamento della famiglia del magistrato.
La voce falsa su Livatino però funzionò e suscitò la ferocia con la quale fu portato a termine l’agguato. E così una fazione mafiosa cercò di affermare la propria superiorità, mostrandosi capace di eseguire un delitto eccellente, e l’altra fazione, che poco tempo prima aveva ucciso il giudice Antonino Saetta con il figlio Stefano, mostrò di subire con insofferenza le conseguenze di un così grave fatto di sangue. O forse sotto sotto se ne avvantaggiò.
E così Livatino, che contrastava ogni forma di manifestazione mafiosa, fu martirizzato, sotto la pressione di uno scontro di potere per l’affermazione della supremazia di una fazione criminale contro l’altra.
Il dileggio, l’incomprensione, l’odio e infine il martirio. Questo incontrò con consapevolezza piena e con riservatezza massima Rosario Livatino.
E oggi, come ha detto il Cardinale Francesco Montenegro alla cerimonia di chiusura della fase diocesana del processo di canonizzazione, egli “ci può insegnare che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni ma, piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane cercando di mantenere pulito l’abito battesimale.”

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