Oltre il cancello

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di Antonio Di Grado

Qualche giorno fa abbiamo ricordato i cento anni dalla nascita di Leonardo Sciascia. Ne abbiamo chiesto un ricordo ad Antonio Di Grado.

Caro Professore,

ricorda? La chiamavo così, anche se Lei detestava l’accademia e la boria professorale, perché ero troppo coinvolto per chiamarLa retoricamente Maestro, e troppo consapevole dei miei limiti, e della differenza tra noi, per chiamarLa Leonardo. Ora tutti raccontano che La chiamavano Nanà ed erano i Suoi migliori amici, tanto Lei non può smentirli col Suo sorriso beffardo.

Le scrivo per informarLa che dopo trent’anni di oblio o di perduranti polemiche maramaldesche, questo centenario sembra finalmente registrare un unanime e quasi miracoloso consenso, di lodi meritate ma tardive anche da parte di testate che certo da vivo non La trattarono bene. Non so se questa è una buona notizia per Lei, nemico dell’unanimismo e amante invece del confronto franco e serrato, e convinto con Bernanos che la verità divide ed è meglio perdere dei lettori che ingannarli. Ma per noi della Fondazione Sciascia lo è, perché da trent’anni ci sforziamo di informare, di sfatare menzogne, di diffondere il suo magistero di moralità e di stile.

Cosa chiederLe, tanti anni dopo? Non cosa pensa di Renzi o di Salvini: non posso che ritenerLa sideralmente lontano dalle nostre miserie, e semmai felicemente a colloquio con ben altri interlocutori: Montaigne e Pascal, Stendhal e Manzoni, Borges e Savinio… So che il Suo giudizio sul presente ci manca – e come! -, ma mi ripugnerebbe infastidirLa con le gesta del disgustoso ex presidente degli USA o con gli squittii di certi ridicoli maîtres-à-penser odierni.

Altro vorrei chiederLe. Se si ricorda ancora, con amarezza e scontrosa nostalgia, «di questo pianeta», come recita l’epitaffio su quella candida lastra sepolcrale, a Regalpetra. E se, come il suo Vice de Il cavaliere e la morte, anche Lei in quel momento estremo «pensò: che confusione! Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta». Insomma, vorrei chiederLe se l’ha varcato, ora, o è rimasto rispettosamente sulla soglia, quel «cancello della preghiera».

Due ricordi, mentre Le scrivo, mi sovvengono. Il primo: con l’arroganza dei miei verdi anni avevo pubblicato una drastica stroncatura d’un romanzo, ora non importa quale. Con altrettanta baldanza gliela feci leggere, sicuro dell’approvazione. Lei atteggiò il volto a una smorfia di rimprovero, e pronunziò una frase che allora – glielo confesso con vergogna – mi sembrò banale: «Non si parla male dei libri». Aveva ragione, e me n’accorgo ora, in questi tempi di rissa feroce e ottusa, di sound and fury, di azzeramento del pensiero critico e della conversazione civile che solo nella letteratura trovano la loro dimora elettiva.

Il secondo: un pomeriggio, nella hall d’un albergo di Enna, dov’eravamo per il premio Savarese. Dopo pranzo, quel giorno, Lei mi aveva donato, fresco di stampa, Il cavaliere e la morte. L’avevo letto d’un fiato, quello straordinario testamento laico, con un’ammirazione e una partecipazione pari allo sgomento crescente, pervasivo: tale era la prossimità, intellettuale, morale, fisica all’estrema soglia che quella contemplatio mortis rivelava. Corsi a cercarLa, a parlargliene; lo feci in quell’atrio, in ginocchio accanto alla sua sedia: come in confessione, e Le confessavo la mia ansia, la mia trepidazione, interrogando il Suo sorriso mite, irrimediabilmente ferito, e il Suo silenzio ch’era già parte «della mente in cui la Sua si era sciolta».

Arrivederci, caro Professore, e grazie di avermi voluto a lavorare con gli altri amici alla Sua Fondazione: è il regalo più bello che mi sia mai stato fatto, e non so se ho corrisposto o no alle Sue attese: sarà Lei prima o poi a dirmelo, col Suo sorriso discreto e generoso. Là dove si dischiude il “cancello della preghiera”.

 

 

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