Leonardo Lugaresi: come vivere da cristiani in un mondo non cristiano

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di Francesco Inguanti

Il Papa nel discorso ai membri del Collegio Cardinalizio e della Curia romana il 21 dicembre 2020 si è lungamente soffermato sul significato della parola “crisi”. L’ha definita come: “… un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione” Cosa sta andando in crisi, oltre ciò che immediatamente appare? C’è qualcosa che ancora non è chiaro? C’è qualcosa che ancora deve andare in crisi?

Mi pare che le parole del Papa indichino a tutti noi una dimensione ed un valore permanente della crisi, che siamo invitati a considerare non come un ostacolo o una disgrazia, ma come un fattore costitutivo della condizione umana. Quindi non si riferiscono solo al momento che stiamo vivendo. Lo storico arriva forse a comprendere qualcosa del passato, più precisamente di quella piccola porzione del passato di cui si occupa nelle sue ricerche, ma solo qualcosa. Un grande maestro di storia e di sapienza cristiana, Henri-Irenée Marrou, diceva che l’unico in grado di avere una piena comprensione della storia (quindi in un certo senso l’unico vero storico) è Dio, perché è il solo ad avere conoscenza di tutta l’infinità di nessi che legano gli avvenimenti del passato tra loro, in una rete così complessa che inevitabilmente a noi è destinata a sfuggire.

E del presente cosa possiamo comprendere?

Del presente, sappiamo e capiamo ancora meno! Nel mio libro: “Vivere da cristiani in un modo non cristiano” ho considerato la crisi di quel cristianesimo, che chiamerei ambientale, che tutti noi anziani abbiamo conosciuto bene nell’Italia degli anni della nostra infanzia e giovinezza. Il “mondo cattolico”, come si usava dire con una espressione forse generica ma che corrispondeva, nel sentire di tutti, ad una realtà sociologica molto concreta e molto presente, ormai non c’è quasi più. Ne sopravvivono certamente delle parti, o delle parvenze, che fanno sì che ancora molti di noi non si accorgano pienamente di ciò che è avvenuto – perché vivono in una sorta di “bolla” cristiana – ma basta considerare l’anagrafe del clero e quella dei praticanti per aver chiaro che tra pochissimi anni la situazione italiana sarà simile a quella degli altri paesi europei, dove il cristianesimo ormai è pressoché invisibile. È sul modo di vivere la fede in questo “mondo non (più) cristiano” che vorrei che riflettessimo tutti di più.

Mons. Massimo Camisasca ed altri hanno evidenziato che la parola crisi deriva da Krisis, facendo quindi notare che Krisis andrebbe tradotto con “giudizio”. Al di là dell’etimologia rimane il fatto che oggi non mancano i giudizi, anzi c’è n’è forse troppi, ma manca piuttosto un criterio per esercitare bene il giudizio.

Per operare la valorizzazione del concetto di crisi di cui parla il Papa bisogna a mio avviso metterlo a fuoco correttamente. La parola crisi, onnipresente nel nostro linguaggio (tutto è in crisi, c’è la crisi di tutto), viene abitualmente spesa con la connotazione negativa di “rottura di un equilibrio, di una stabilità”, “destrutturazione”, “perdita di valore”, cioè in una prospettiva semantica che ha il suo esito finale nella catastrofe o nel collasso di un sistema. Solo a partire da questo senso negativo se ne recupera, in modo quasi paradossale, una accezione positiva, ma solo in modo secondario: così si parla ad esempio di “crisi di crescita”, un po’ come si dice che un organismo può uscire temprato da una malattia o da una difficoltà.

Ma qual è il suo valore positivo?

In realtà il valore positivo di crisi sta nella sua origine, che è appunto legata alla categoria di giudizio. Krisis, dal verbo krino, è infatti il giudizio che separa, cioè che “discrimina”: il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto … È un procedimento fondamentale del vivere umano: anche quando uno si mette semplicemente a riordinare la casa, tanto per dire, opera una “crisi”, nel senso che separa le cose da tenere e quelle da buttare, eccetera. Il problema è che noi oggi siamo condizionati dall’essere immersi in un ambiente culturale in cui sul concetto stesso di giudizio grava un pesante fraintendimento, e di conseguenza una diffusa diffidenza. “Giudicare” equivale per molti a “condannare”, “rifiutare”, o “respingere” e non è raro che anche all’interno della Chiesa vi sia chi lo considera un comportamento essenzialmente antievangelico.

A suo avviso non stanno così le cose?

Non è assolutamente così: quella del giudizio è una fondamentale necessità antropologica (tutti noi abbiamo bisogno del giudizio, per vivere e la cosa a cui aspiriamo di più è essere approvati, il che implica l’essere giudicati), e la buona notizia dell’annuncio cristiano è che c’è un Dio che giudica tutto, con verità e con amore. Se non fossimo certi di questo, saremmo disperati, come tutti gli altri uomini, per le ingiustizie e le storture del mondo. Paolo dice che «noi abbiamo il pensiero (nous) di Cristo» (1 Cor. 2,16), perciò l’uomo spirituale «giudica ogni cosa» senza essere giudicato, se non da Dio. Dunque il primo e più importante servizio che i cristiani rendono al mondo è proprio il giudizio. Se viene meno questa dimensione culturale del fatto cristiano si dissolvono anche quelle, ad essa coessenziali, della carità e della missione. Naturalmente ciò non significa affatto ridurre la presenza cristiana a una funzione di mera proposizione verbale, o teorica, della dottrina: il giudizio è una cosa molto concreta, consiste forse più di gesti che di parole, ma occorre che siano sempre gesti consapevoli delle proprie ragioni. Proporrei questa formula: il cristianesimo è un fatto critico, cioè un insieme di esperienze e di gesti “pubblici”, cioè visibili da tutti e incontrabili da chiunque lo voglia, che di per sé pongono domande e “mettono in crisi” l’ambiente sociale in cui si pongono.

I dati statistici e la percezione diretta documentano nell’Occidente un graduale abbandono della Chiesa e della fede cristiana. In molti ritengono inevitabile e forse opportuno che questo processo sia perseguito per ricostruire una esperienza ecclesiale con “meno fedeli ma più fede”. Lei non condivide questa posizione. Perché?

Dissento completamente dalla posizione di chi dice “meglio pochi ma buoni”. A parte il fatto che nulla ci garantisce che invece non diventiamo “pochi e cattivi”, trovo che sia di una superficialità molto cinica, perché si sbarazza in modo sbrigativo dei “molti poco buoni” che restano fuori dall’orizzonte di una chiesa così concepita. Il cardinale Daniélou diceva che, per quante critiche si possano fare alla cristianità costantiniana, bisogna comunque riconoscere all’imperatore Costantino il merito di aver reso meno difficile essere cristiani, ed essergli grati per questo. In effetti il cristianesimo è diventato maggioritario nell’impero romano solo parecchi decenni dopo la svolta da lui impressa alla politica religiosa di Roma. L’annuncio di Cristo è rivolto a tutti gli uomini, anche ai deboli, ai pavidi, agli incoerenti (cioè anche a ciascuno di noi, se posso permettermi). Con che diritto ci permettiamo di auspicare, o di sognare addirittura una situazione in cui sia difficile incontrare il cristianesimo e ancor più arduo aderirvi? È probabile che questo sarà il nostro futuro, e se sarà così lo accetteremo e cercheremo di affrontarlo nel modo migliore, con la coscienza che la fede può essere vissuta in qualunque condizione, ma desiderarlo proprio no!

Nei momenti di particolare crisi, come quello che stiamo attraversando, si fa appello alla esperienza dei cristiani dei primi secoli dopo Cristo. Tra i documenti più citati vi è certamente l’Ad Diognetum. Cosa se ne può trarre come indicazione e dall’esperienza della Chiesa dei primi secoli nell’oggi?

Il metodo della missione cristiana che ci viene esemplarmente documentato negli Atti degli Apostoli e poi nella letteratura patristica dei primi secoli è integralmente applicabile anche da noi oggi. Esso comporta da un lato il superamento di una cultura della separazione, come quella presente nel giudaismo, volta a preservare innanzitutto la purezza identitaria dalla contaminazione del mondo pagano, e dall’altro però un’inesausta volontà e capacità di giudizio, nel senso sopra indicato, per cui la completa immersione nel mondo, l’apertura a tutti i contatti e a tutte le relazioni non si traduce in un’assimilazione alla mentalità del secolo. «Non conformatevi» (Rom 12,2) è il precetto fondamentale, ma va tenuto insieme a quel “farsi tutto a tutti” (cfr. 1 Cor  9,22) che Paolo rivendica come cifra del suo stile missionario, ma che deve appartenere ad ogni cristiano. Si tratta, per dirla in modo ancor più sintetico (ed evangelico), di essere “salati”, perché è esattamente questo che Cristo ha detto ai suoi: «voi siete il sale della terra» (Mt 5,13).

Un altro documento più volte citato è il Discorso di Paolo all’Areopago di Atene. Che differenza di impostazione e di metodo c’è tra i due e come il secondo può aiutarci oggi?

Non vedo una sostanziale differenza di metodo tra la prospettiva evocata dall’Ad Diognetum e il testo di Atti 17, che può essere considerato il modello della chresis, cioè del «retto uso» cristiano dei beni del mondo. In entrambi, la proposta è quella di un “uso” dei beni della cultura e della società pagana che, sottoponendoli al vaglio della krisis, pretende di scoprirne il più autentico significato, ignoto agli stessi pagani che li hanno prodotti, e quindi di purificarli di tutte le scorie e i limiti che possono avere per restituirli, nella loro verità, alla fruizione comune.

Può chiarire meglio?

Certamente: quando Paolo arriva ad Atene, la sua prima reazione davanti alle manifestazioni della cultura religiosa greca è di scandalo; subito dopo però si dice che lui non si limita a parlare con i giudei e i “timorati di Dio”, cioè i simpatizzanti per il giudaismo, ma con tutti quelli che incontra (alla maniera di Socrate, sembra voler suggerire il testo). Questa apertura lo porta a valorizzare il testo di un’epigrafe «al Dio ignoto» che ha visto; è possibile che l’iscrizione in realtà fosse rivolta “«agli dèi ignoti», come anche alcuni padri della chiesa pensavano, ma la “forzatura” compiuta dall’apostolo non va considerata, a mio avviso, come una “pia frode” o una mera trovata propagandistica, come molti studiosi affermano. Paolo ritiene di poter dare la vera spiegazione del senso di ciò che i pagani hanno scritto senza esserne pienamente consapevoli. È chiaro che questa pretesa – che è innanzitutto di Cristo e poi dei suoi seguaci – di dire all’uomo che cosa c’è nel profondo del suo cuore, può suscitare una reazione e provocare una reazione, anche molto ostile. Però questa è la base del rapporto con il mondo, quel “servizio del giudizio” a cui alludevo prima. Forse non ci rende simpatici, ma è la prima forma di carità che la Chiesa può fare al mondo. Del resto, come recita una vecchia battuta, il Signore non ha detto “voi siete lo zucchero del mondo”.

La pandemia ci ha fatto comprendere quanto sia utile il web, ma anche quanto già dipendiamo da esso. Questa esperienza ha attraversato la Chiesa italiana che ha potuto svolgere il proprio compito con la catechesi a distanza. Quanto il tessuto della fede, che si nutre di convivenza, gesti comuni e appartenenza viene sdrucito dal contesto polarizzato e usurante in cui viviamo?

La logica del cristianesimo è assolutamente una logica di prossimità, perché discende dall’agire di Dio, il quale, pur essendo in se stesso il totalmente Altro rispetto all’uomo e al mondo, non si manifesta però come Signore della distanza, che si rivela attraverso segni remoti nel cielo, che spetta a pochi “specialisti del sacro” decifrare e interpretare per i popoli (come avviene nelle religioni), bensì come un Dio che si fa prossimo, sceglie alcuni uomini come suoi interlocutori (Abramo, Mosè, i profeti …), parla con loro a tu per tu e per loro tramite stabilisce un legame con un popolo, fino a che arriva a farsi intimo, incarnandosi nel ventre di una donna, nascendo e vivendo come uomo in un punto particolare del tempo e dello spazio umano, ma per la salvezza di tutti. La prospettiva missionaria universale che pure appartiene al cristianesimo sin dall’origine (At 1, 8: «mi sarete testimoni […] fino ai confini della terra»), non implica affatto l’abbandono della logica della prossimità, perché è sempre attraverso il contatto diretto, l’incontro personale, la compagnia concreta, fatta di condivisione della vita quotidiana, che passa la comunicazione del vangelo.

E questo come incide con i cambiamenti in atto?

Tutto questo sembra essere messo in discussione dalla nuova situazione che si è venuta a creare: i mesi “senza Messa” della scorsa primavera non ce li dimenticheremo facilmente, perché rappresentano un trauma inaudito, i cui effetti si sentiranno a lungo. Non si può negare che la Chiesa italiana abbia barcollato, sotto il peso di quello shock, e che in molti casi sia mancata la capacità di riaffermare in modo adeguato il valore inestimabile che, nonostante la dolorosa sospensione del culto pubblico a cui si è stati costretti, ha per noi cattolici il sacramento eucaristico. Le tele-comunicazioni sono, ovviamente, uno strumento oggi imprescindibile e in certe situazioni prezioso, ma il rischio di una possibile deriva mediatica, in cui alla prossimità dell’incontro reale (là dove anche solo due o tre, riuniti nel Suo nome, garantiscono, secondo la promessa del Signore, l’oggettività della Sua presenza) si sostituisce una dimensione sostanzialmente “spettacolare” è, a mio avviso, gravissimo e non credo sia ancora stato adeguatamente ponderato.

 

 

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