“Fratelli tutti”, mons. Pezzi: solidarietà è condividere la realtà dell’altro.

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Riportiamo il commento all’Enciclica che ci ha inviato mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo della Gran Madre di Dio a Mosca.

La nuova enciclica di Papa Francesco, ‘Fratelli tutti’ (FT), terza del suo pontificato, si inserisce nel flusso della tradizione della dottrina sociale della Chiesa. Nel numero 275 scrive il Santo Padre: “Non è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce soltanto i potenti e gli scienziati. Dev’esserci uno spazio per la riflessione che procede da uno sfondo religioso che raccoglie secoli di esperienza e di sapienza” (FT, 275). Con queste parole Papa Francesco sottolinea la necessità del contributo di tutte le componenti in spirito di fraternità e solidarietà per il bene della persona e per il bene comune.

In una successiva Lettera, indirizzata al Cardinale Parolin, Segretario di Stato, il Santo Padre confermava questa sua prospettiva: “un’Europa divisa, composta di realtà solitarie ed indipendenti, si troverà facilmente incapace di affrontare le sfide del futuro. Una ‘Europa comunità’, solidale e fraterna, saprà invece fare tesoro delle differenze e del contributo di ciascuno per fronteggiare insieme le questioni che l’attendono” (Francesco, Lettera sull’Europa, 20201022).

Fraternità e solidarietà sono due pilastri della dottrina sociale della Chiesa. La Chiesa sa, grazie alla sua provata e confermata esperienza, che una società fraterna e solidale sarà in grado di superare “il virus dell’individualismo radicale” (cfr. FT, 105; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettere Placuit Deo, 12, 20180222; Samaritanus bonus, III, 20200714), favorendo l’emergere della persona e dei suoi talenti per la costruzione del Regno dei Cieli.

Occorre per questo volere concretamente il bene dell’altro (cfr. FT, 112), vedere l’altro non come un competitore, o peggio ancora, un nemico, ma un sodale, un fratello. Il Vangelo parlerebbe di koinonos (cfr. Lc 5,10), compagno del viaggio della vita.

La solidarietà nasce da questa accettazione gratuita dell’altro che arriva fino al servizio all’altro: “la solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri. Il servizio è ‘in gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo’. In questo impegno ognuno è capace di mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a ‘soffrirla’, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone” (FT, 115).

Per gli italiani, o comunque per coloro ai quali è familiare il nome di Pavese, forse risulteranno incredibili le seguenti parole che Pavese scrisse sul primo numero dell’Unità, il giornale del Partito Comunista Italiano nel 1945, all’indomani della fine della guerra quando l’Italia era tutta in macerie e milioni di persone in quasi tutta Europa, in Africa, in Asia erano morte in circostanze orribili, ma soprattutto i cuori erano rimasti ripieni di odio e violenza: “andremo verso l’uomo, perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo, di noi e degli altri. Sta qui la nostra felicità. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noi quando scordiamo che la vita è comunione”. Condivisione, comunione sono la declinazione reale della solidarietà (cfr. FT, 152; 168).

La solidarietà quindi emerge più potentemente nell’esperienza di sofferenza, dolore, in una parola nel bisogno (cfr. FT, 116). Nell’ultimo anno possiamo rilevare tre prospettive di bisogno, che hanno radici più profonde nel passato, ma che hanno segnato, chi più chi meno, il presente di tutto il mondo. Si tratta della ‘tranquillità e pace’ della vita quotidiana messa a rischio dall’odio verso di sé e di conseguenza verso l’altro (violenza, abusi, eutanasia e terrorismo in particolare), dell’entrata di un corpo estraneo nella propria vita e nelle proprie abitudini (i nuovi migranti e i rifugiati), e della diffusione di una malattia sconosciuta e infida (pandemia di covid-19).

Nell’approccio a queste tre concrete situazioni ci si è trovati impreparati, o, se volete, spiazzati, perché si tratta di crisi umanitarie, esistenziali, dell’umano in quanto tale, che vanno a toccare non solo gli ingranaggi dell’economia, della politica, ma il senso stesso dell’essere uomini, dell’essere comunità.

È così emerso in questo contesto di crisi che la solidarietà dipende prima di tutto dalla coscienza della situazione che si riesce ad avere, e poi dal tipo di affronto della situazione che si decide di esercitare: altro è affrontare un problema, altro è affrontare un uomo, una comunità di popolo, o un pezzo di mondo, di creato, con cui vengo in contatto. Là, dove si è posto in primo piano ‘il problema’ abbiamo assistito a errori grossolani che hanno portato anche a un maggior numero di vittime. Là, dove la preoccupazione è stato l’uomo o gli uomini o il bene comune, la nostra casa comune, ci sono state non solo manifestazioni di solidarietà, ma anche risultati positivi più efficaci (cfr. FT, 127; 146).

In secondo luogo l’accettazione dell’altro come un dato positivo, nonostante tutto, come un bene innanzitutto è stato un discriminante importante in quelle tre situazioni. Vedere nell’altro, in ciò che è fuori di me, solo perché è fuori di me, un nemico a priori, genera paura, insicurezza, disperazione. E in queste condizioni è assai difficile offrire una fattiva solidarietà. Infine senza una chiara presenza e coscienza di un senso ed un gusto nella vita, è praticamente impossibile offrire la propria vita. Nella sostanza si tratta di praticare una solidarietà dove ‘si condivide qualcosa di più delle merci’ (Giovanni Paolo II, Appello, 19900129) o delle convenienze.

A riguardo della condivisione il Santo Padre parla anche della solidarietà che può scaturire dalla ‘rete’: in epoca globalizzazione i social e più in generale i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. Possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio. È però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione ci orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla vicinanza alle persone, soprattutto le più bisognose e vulnerabili, all’impegno di costruire il bene comune (cfr. FT, 205).

Non si può offrire solidarietà senza in qualche modo condividere la realtà dell’altro. E questo è impossibile senza una positività di partenza, come quella che dà la fede. Diceva Guardini che il livello di civiltà di una società si misura dal grado di sviluppo e di attenzione all’uomo, soprattutto più vulnerabile, che la società sarà in grado di mostrare e attuare.

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