Diario dal coronavirus 6. Non è fare la buona scuola che ci rende maestri.

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di Simona Famulari

Qualche giorno fa se ne è andato un grande maestro, un uomo di una statura eccezionale, in grado di cambiare, in chi aveva il piacere di stargli intorno, la percezione del tempo e dello spazio. Li rendeva all’improvviso – tempo e spazio – abitati; li faceva, con la sua musica, con le sue parole, con la sua sola presenza, pieni di armonia e significato, totalmente umani.

Per un certo periodo avevo casa a poche centinaia di metri dalla sua e a volte lo incontravo con la sua carrozzina nelle piazze piene di vita di Bologna, la faccia assolata, il volto incredibilmente sereno, nei limiti, e nelle pure evidenti sofferenze che gli spasmi della malattia non gli risparmiavano.

Come si fa in questi casi, con la nostalgia degli orfani che cercano nelle vecchie foto di carpire l’essenza di chi ha impresso coi suoi tratti somatici un’identità alla propria identità, e con la sorpresa consapevolezza di chi nel lutto scopre di avere ricevuto un’eredità enorme, sono anch’io andata, come tutti, a rivedere le sue vecchie interviste, a cercare le preziose testimonianze che le sue apparizioni pubbliche hanno lasciato sul selvaggio mondo della rete.

Così è arrivato il diamante che aspettavo.

Sono giorni così particolari per il mondo intero, e noi educatori non siamo certo immuni dalla crisi globale che il virus ha generato infettando ogni aspetto delle nostre esistenze, da quelli più materiali a quelli più intimi ed esistenziali. Noi così impegnati ad inventarci una scuola senza scuola, alle prese con la rinuncia (tanto sofferta) della prossimità con i nostri ragazzi, e con la paura che le ombre delle anguste limitazioni ministeriali si proiettino anche in un futuro, non solo prossimo, rischiamo di perderci in mille interrogativi, nell’ansia nevrotica di chiedere alla tecnologia o al ministero di assolvere a un compito per loro impossibile e di colmare quella difficile distanza che le contingenze ci impongono. Molti di noi vivono queste ultime settimane nel timore di non essere riusciti a raggiungere i bambini e i ragazzi al di là dello schermo, e di avere perso anche il rapporto e le conoscenze faticosamente conquistate nei mesi e negli anni precedenti.

Al culmine delle preoccupazioni di cui le chat insegnanti sono piene sentivo proprio il bisogno che le parole di un maestro mi dessero una chiave nuova per giudicare in maniera più significativa e umana l’esperienza di questo tempo così strano e critico.

Le parole sono arrivate da un’intervista rilasciata dal maestro Ezio Bosso qualche anno fa.

“Chi è stato il suo padre musicale?” chiede Bonolis al Maestro: “Beethoven”, risponde Bosso, “è stato il mio padre musicale…uno si immagina il mezzo busto, ma Beethoven era una persona. Noi suoniamo l’esperienza, la vita, l’amore, la storia di una persona ogni volta.”

Ancora a Bonolis che gli chiede di immaginare di trovarsi al cospetto del grande compositore e di dover scegliere un brano da dedicargli, Bosso risponde: “(gli suonerei) il brano che a me ha cambiato la vita – Sonata al chiaro di luna – perché quando l’ho sentito da bambino volevo suonarlo a tutti i costi, a tutti. Tant’è vero che non me lo lasciavano suonare perché ero troppo piccolo e allora sono andato di nascosto a comprare la partitura. Gli dedicherei proprio questo e gli direi: ma ti rendi conto di cosa hai scritto, che tutti dopo si sono basati su questa cosa? È come se tu avessi viaggiato nel futuro e in più hai spinto un bambino a fare (quello che ha fatto).”

Un bambino talmente colpito dalla bellezza dell’armonia di una musica scritta duecento anni prima che non ha resistito e ha scelto un compito che nessuno gli avrebbe mai affidato, perché troppo arduo per la sua età.

In questa esperienza raccontata con le poche parole che la malattia gli permetteva di pronunciare e l’insospettabile grazia che lo contraddistingueva, il maestro Bosso ha dato una luce nuova a quelle domande che tutti in questo periodo ci facciamo: come si può essere un maestro con i limiti di una lontananza imposta dal tempo o, nel nostro caso, dallo spazio? Che cosa muove la libertà dei nostri ragazzi così tanto da far loro decidere di affrontare il compito che gli proponiamo?

 

Non si fa didattica a distanza perché è bello far scuola così, la contingenza è solo una possibilità perché la creatività trovi strade percorribili, anche laddove non sembrano esserci. Ma grazie a Dio ciò che definisce il nostro ruolo non è certo la buona riuscita di questa impresa a tratti impossibile, in poche parole non è fare la buona scuola che ci rende maestri.

Colui che può raggiungermi e parlarmi anche a duecento anni di distanza, risvegliando un desiderio, quello è sicuramente un vero maestro. Due i segreti che lo rendono universalmente riconoscibile da tutti, da un bambino di pochi anni, come da un adulto che apparentemente non avrebbe più nulla da imparare: un fascino commosso per l’armonia del cosmo e la conoscenza approfondita di una lingua, di una sintassi che permetta la costruzione di un racconto fedele di questa armonia, che sia in grado di svelarne le leggi e di tramandarle.

Dentro questa nuova consapevolezza l’orizzonte del lavoro educativo si spalanca improvvisamente: da un lato possiamo giudicare il nostro lavoro passato e domandarci se e quando siamo stati commossi e appassionati dalla bellezza della nostra materia, piuttosto che ansiosi o delusi dal non avere un uditorio ideale; dall’altro lato possiamo avere una bussola che ci guidi in questa giungla di interrogativi e ansie che non ci restituiscono la vera dimensione della sfida educativa.

Non possiamo sapere cosa ci riservi il futuro, ma certamente questa sfida non se ne andrà con la fine della pandemia. Leggevo ieri di un uomo cinese che ha ricevuto il verdetto con cui lo condannavano a morte attraverso Zoom, da una corte riunita virtualmente sullo schermo di un pc. Se la solitudine che il destino riserverà alle generazioni future sarà sempre più spietata, ancor più gli educatori, i maestri, devono sentire forte il richiamo a rispondere al loro compito, è la risposta a questo compito che annulla ogni distanza e ci rende eternamente compagni del destino di ogni alunno e di ogni uomo.

Se si pensa che sia impossibile, chiediamolo a un maestro che ha incantato e continua a incantare il mondo dirigendo la sua orchestra dallo scranno di una carrozzina a sette cieli da qui.

 

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