Diario dal coronavirus: didattica a distanza, ovvero del camminare in salita

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di Giuseppe Lupo

È passato più di un mese dacché è stata attivata la scuola a distanza, cosa n’è venuto fuori?

Innanzitutto si è osservato quanto fossimo impreparati a lavorare con il digitale, sia in termini di formazione dei docenti, che di utilizzo delle piattaforme, da parte di studenti e genitori. Ci siamo accorti di quanto le scuole fossero del tutto sprovviste di ogni benché minima uniformità di azione digitale. L’unico strumento usato era il mal tollerato registro digitale, che si è rivelato del tutto inadeguato per comunicazioni, condivisione documenti e interazione tra attori scolastici. Le stesse carenze hanno però manifestato la generosità e disponibilità di insegnanti, genitori e ragazzi.

Il ministro ha detto in Parlamento che più di 1 milione di studenti è escluso dalla didattica digitale per carenza infrastrutturali. Tutti sappiamo che a quel numero va aggiunta una buona percentuale di studenti esclusa per carenza di supporto familiare.

Per quel che riguarda i docenti, in una prima fase si sono rotti il collo per condividere materiali, interagire e correggere una mole impensabile di compiti e attività. Per poi rendersi conto che quello era uno sforzo di Sisifo, se usato come unica interazione. I ragazzi vanno motivati adeguatamente in presenza, figurarsi se possa bastare un compito (pur ben pensato e insolito o proposto in maniera interattiva) senza un’interazione dal vivo…

Quindi è iniziata una seconda fase: “Videolezioni a manetta”. Provare a interagire il più possibile con i ragazzi, per cogliere il loro tempo e i loro bisogni. Bellissime lettere e diari e veri e propri cahier de doléance, in cui gli alunni tiravano fuori disagi, contesti familiari, e piccole scoperte. Bellissimo, ma rimangono squarci.

Da questo ritratto, ovviamente, sono stati omessi i casi di fancazzismo selvaggio di varia gradualità, perché in fin dei conti è lo stesso che sotto altra specie si manifesta abitualmente in classe.

Nel bel mezzo di una video lezione una ragazza puntuale, precisa e molto zelante (una di quelle che ti chiede se ti ha deluso, la volta in cui non riesce a portare a casa il voto tondo tondo) non riesce proprio a trattenersi. “Prof, ma è molto più difficile non distrarsi stando nella nostra cameretta, per di più con cellulari e pc accesi davanti ai nostri occhi”.

La verità è che ci troviamo (noi come loro) su un bel piano inclinato, che senza darcene notizia né notifica, ci conduce indietro passo dopo passo. Per indietro si intende dallo stato di essere umano attivo e partecipe alla propria vita, a quello di spettatore diffidente di uno spettacolo esteriore e indifferente alle nostre questioni, che punta tutto sulla nostra mera reazione emotiva, pre-cognitiva, animalesca. E da lì è chiaro che quel che si vede è confuso e pressoché nullificato.

Esempio cardine sono alcune videochiamate di famiglia che, lentamente ma con costanza, hanno spostato il loro baricentro dal “come stai?”, al “cosa mangi?”, per finire inesorabilmente preda (soprattutto se in presenza di piccoli) alle video animazioni con occhi a cuore, gatti sulla testa e via dicendo.

Che poi è lo stesso piano inclinato che parte dal blog (in cui parli al mondo), passa da Facebook (“cosa stai pensando?”, dillo agli amici), confluisce in twitter (solo poche parole), diventa Instagram (“posta una foto e falla finita”), per culminare in Tik Tok (fai il balletto e condividi).

La domanda è urgente: come si cammina in salita? La risposta più semplice e veritiera non può che essere: con fatica. Serve la fatica di accettare di essere in stato di inferiorità, rispetto al piano inclinato sopra descritto. Per cui se si cade indietro non c’è da stupirsi.

Serve certamente la fatica di iniziare in solitaria, cogliendo i bisogni dei ragazzi ma lavorando sulla propria necessità di senso. Uno dei momenti delle video lezioni che desta più curiosità è il provare a dire una parola sulla situazione attuale. Non per rinfocolare cellule dormienti di complottisti in erba, ma anche soltanto per strapparsi dalla mera percezione di disagio e ritornare a considerare la quarantena come una forma di protezione personale. Sembra un passaggio elementare, ma sfido chiunque a non aver mai sbuffato per le conseguenze restrittive sulla propria vita personale.

Serve la fatica di distinguere lo stato dei nostri interlocutori: presente, attivo, stanco, disattento, impegnato in altra conversazione, esposto a un contesto familiare difficile, esposto a una situazione di malattia personale o di un familiare. È la stessa fatica di sempre, ma i dati a nostra disposizione sono inferiori: per cui ci vuole più attenzione e attesa per coglierli.

Serve la fatica di esporre le nostre migliori perle al buio. Provare ad offrire il meglio di ciò che si è incontrato nella vita e aiuta a stare in piedi, senza carpire il benché minimo sguardo d’intesa o di ricezione. Provarlo a fare come con la benda sugli occhi.

Ore 16, videolezione di storia. Avevo preparato video, cartine, munizioni di ogni tipo per colpire la loro attenzione. Si parlava del “Terrore”, del 1793. Parte la lezione e inizio a spiegare, dimenticando buona parte della scaletta e utilizzando pochissimi strumenti digitali. Dopo mezz’ora di seguire mese per mese, fatto per fatto, mi fermo e mi rendo conto. In fondo stiamo studiando degli avvenimenti velocissimi per l’epoca, nel giro di qualche mese poteva cambiare tutto. Proprio come adesso. Un’alunna completa la frase che stavo pensando, dicendo al microfono: “Quello che stiamo vivendo oggi, domani lo leggeranno nei libri di storia”. Guardo lo schermo e dico loro: “Un giorno qualcuno ci chiederà cosa stavamo facendo noi in quel momento (in questo 2020) e sta a noi rispondere oggi se vogliamo dilapidare il nostro presente o costruire il nostro futuro”.

 

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