LA BANALITÀ DEL MALE E LA RESILIENZA DELLA BELLEZZA.

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Pubblichiamo la relazione di don Giuseppe Ruggirello all’incontro svoltosi a Terrasini il 20 settembre 2023 a conclusione del percorso Dialoghi terrasinesi 2022/2023 e dedicato a “Le complesse sfide educative controvento” dal titolo:

“LA BANALITÀ DEL MALE E LA RESILIENZA DELLA BELLEZZA.Padre Pino Puglisi, sacerdote ed educatore, nel trentennale del suo martirio”.

Può il male essere banale, o peggio, essere banalizzato? Può un martirio perdere o affievolire la sua forza dirompente e la sua indole provocatoria e profetica, oltre il tempo e il luogo in cui si è consumato? In altri termini, possiamo ridurre la figura del beato Padre Pino Puglisi ad un santino oleografato, apparentemente innocuo? Possiamo circoscrivere e archiviare l’uccisione di Padre Pino Puglisi come un delitto di mafia, come una notizia di cronaca nera tra le altre nella Sicilia degli anni ‘90? Come se tutto fosse “normale”?

Il poeta Mario Luzi nel dramma composto vent’anni fa, nel 2003, dal titolo “Il fiore del dolore”, dedicato a Padre Pino Puglisi, lo intuisce bene, quando scrive:

“Non possiamo limitarci a intenderlo

nel suo brutale aspetto di assassinio […]

Ma quest’episodio non è cronaca

e noi siamo tenuti a leggerlo

nel linguaggio alto,

quello inesplicabile della profezia”.

A trent’anni dal martirio, in odio alla fede, del parroco di Brancaccio credo che sia necessario assumere una consapevolezza diversa, più matura, che sappia accogliere tutta la portata della profezia della morte martiriale di Padre Puglisi e l’eredità spirituale della sua testimonianza, partendo dalle scelte che, come parroco, seppe attuare in quel preciso contesto sociale, con una lettura dei segni dei tempi ed un metodo, che oggi chiameremmo di corresponsabilità ecclesiale, o se preferite, sinodale.

Il martirio di don Puglisi è fondato sul suo ministero pastorale, sul suo essere parroco, sulla cura delle famiglie e dei ragazzi, a servizio del bene comune, con una pastorale giovanile e vocazionale, che capovolgeva la logica mafiosa della manovalanza, che trovava nei ragazzi il suo principale bacino.

Il ministero di don Pino, infatti, aveva due cattedre: quella del Vangelo e quella dell’umano; e due poli di gravità fondamentali: la promozione umana, intesa come servizio all’altro, e l’incarnazione del Vangelo. Si potrebbe dire che aveva appreso la lezione del Concilio Vaticano II, particolarmente della costituzione pastorale Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, la quale afferma nel suo proemio: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1).

Ecco, allora, un primo tratto decisivo di don Pino: era l’uomo dell’ascolto. Nel suo cuore trovavano eco le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei suoi parrocchiani, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono. Padre Puglisi non fu un “prete sociale”, né agì isolatamente: chiese, piuttosto, alle assistenti sociali missionarie, fondate all’indomani del secondo conflitto mondiale a Palermo dal card. Ernesto Ruffini, di affiancarlo e di aiutarlo nel comprendere gli aspetti sociologici e di intervento sia a Godrano, che nei tre anni a Brancaccio. Il cardinale Ruffini era convinto che le scienze umane e sociali e il metodo del Servizio Sociale potessero offrire risposte più idonee: la lettura della realtà, la programmazione dell’intervento con la partecipazione attiva degli stessi fruitori dei servizi, l’impegno per la promozione di servizi che tutelassero e rispettassero la dignità di tutti, con un’attenzione privilegiata ai più poveri.

Negli anni della formazione di don Pino il clima diocesano è quello di una Chiesa che partecipa pienamente alla stagione della ricostruzione, non solo economica, ma anche religiosa e sociale. Anche per questo dal 1946 al 1956 nell’arcidiocesi di Palermo il card. Ruffini fa costruire 16 nuove chiese, con annesse delle strutture di servizio sociale, come elemento fondamentale dello sforzo missionario della Chiesa. Padre Puglisi entra in seminario nel 1953 e viene ordinato nel 1960 e vive tutto il fermento nato in seno al Concilio e al rinnovamento della chiesa. Viene subito inviato nella periferia di Palermo, a Settecannoli, e anche negli altri spostamenti, gran parte della sua vita trascorre nelle periferie fisiche ed esistenziali.

È estremamente significativo ciò che riferisce di don Pino l’assistente sociale missionaria Agostina Aiello, tra le più strette collaboratrici, che lo coadiuvò fin dall’inizio, particolarmente quando venne nominato direttore diocesano e regionale del Centro Vocazioni. Scrive: “Nell’itinerario formativo e di crescita spirituale P. Puglisi invitava a riflettere i ragazzi sul senso della propria vita… proponeva la figura di Cristo di cui amava tanto parlare. Di Cristo sottolineava la grande umanità, i suoi sentimenti umani, l’interesse nei confronti di ogni uomo ed in particolare per i più deboli, i bambini, i peccatori, e poi parlava di Gesù uomo libero e liberante al tempo stesso. Ricordava in particolare lo sguardo di Gesù, uno sguardo che raggiunge l’uomo nel profondo, lo conosce, lo interpella e lo promuove, avvolgendolo nella tenerezza e nell’amore di Dio. Parlava spesso ai ragazzi della tenerezza di Dio, per esempio in occasione della liturgia penitenziale, ricordava che Dio è un Padre misericordioso che comprende tutte le debolezze e gli errori del figlio, lo vuole liberare dai mali e dai pericoli”.

Libertà e liberazione per l’uomo sono un invito costante di don Pino ai suoi ragazzi, con la forza disarmante del Vangelo, perché il “dio” dei mafiosi non è il Dio di Gesù Cristo. In questa sua attenzione all’uomo e alla sua fragilità, sentiamo l’eco dell’enciclica Redemptor Hominis (1979) di San Giovanni Paolo II, che afferma: “L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale… è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione” (RH 14). L’uomo, dunque, è la prima e fondamentale via della Chiesa: se lo sentivano ripetere spesso i volontari del Centro Padre Nostro e le assistenti sociali missionarie. Eppure, solo alla luce del Volto di Cristo trova vera luce il mistero dell’uomo (cf. GS 22).

Non a caso don Pino portava spesso i suoi ragazzi a Monreale, a contemplare il volto del Cristo Pantocrator. Era una tappa obbligata dell’itinerario educativo che proponeva a scuola e al Centro Vocazioni. Per un’ultima volta, nel pomeriggio del 15 settembre 1993, giorno del suo compleanno e del suo martirio, ebbe la possibilità di incrociare quello sguardo, di sperimentare la luce di quell’abbraccio paterno che tutti accoglie, avendo unito in matrimonio due giovani proprio nella nostra Cattedrale.

Mi piace qui riportare come lo scrittore palermitano Alessandro D’Avenia ne tratteggia l’esperienza vocazionale in una pagina del suo libro “Ciò che inferno non è”, tutto incentrato sulla figura di Padre Pino Puglisi, che fu suo insegnante di religione al Liceo classico Vittorio Emanuele II di Palermo. Scrive D’Avenia nel dialogo tra Padre Pino e il diciassettenne Federico, nel quale lo invitava ad aiutarlo in estate a Brancaccio:

«Padre Pino! Oggi non ci siamo visti.»

Ecco, della scuola mi mancherà anche 3P. Così chiamiamo padre Pino Puglisi, il professore di religione, con le sue scarpe grosse, le sue orecchie grandi, i suoi occhi calmi.

«Pronto per le vacanze?»

«Sì, vado a studiare inglese in un posto vicino a Oxford. Ho visto le foto: è tutto verde, ci sono i campi da tennis e di calcio in erba. Erba vera, don Pino! Sarà un paradiso… E lei cosa farà?»

«Io? Dove vuoi che vada in una città come questa? Siamo sempre in vacanza. Guarda che luce!»

«Lei lavora troppo.»

«È quello che amo fare. A Brancaccio ci sono bambini e ragazzi a cui far capire che l’estate è diversa dal resto dell’anno.»

«Io non ci sono mai stato a Brancaccio.»

«Io ci sono nato e non ti sei perso niente. Altro che erba, lì solo cemento. C’è tanto da fare, tutti quei bambini… A volte mi sembra di non combinare niente. Mi mancano le braccia.»

«Le serve una mano?»

«Anche tre… Secondo te perché vi ho chiesto di venire quando avete tempo? Voglio fare il possibile perché questa estate sia diversa dalle altre.»

«Magari passo prima di partire. Basta che non parliamo di Dio.»

Don Pino sorride. Un sorriso strano, quieto, come emerso dal profondo del mare quando la

superficie è in tempesta. Mi ricordo ancora la prima lezione con lui. Si era presentato con una scatola di cartone. L’aveva messa al centro dell’aula e aveva chiesto cosa ci fosse dentro. Nessuno aveva azzeccato la risposta. Poi era saltato sulla scatola e l’aveva sfondata. «Non c’è niente. Ci sono io. Che sono un rompiscatole.» Ed era vero. Uno che rompe le scatole in cui ti nascondi, le scatole in cui ti ingabbiano, le scatole dei luoghi comuni, le scatole delle parole vuote, le scatole che separano un uomo da un altro uomo simulando muri spessi come quelli della canzone dei Pink Floyd.

La voce di don Pino mi distoglie da quel ricordo fulmineo ma indelebile.

«A che serve parlare di Dio? Se io ti spiego l’amore tu t’innamori? Quando ti innamori di una ragazza, forse prima te la spiegano?»

«No, prima la vedo e poi voglio conoscerla.»

«Bravo. Si vede che sei mio alunno. Dio bisogna darlo, poi dirlo. Dio o lo tocchi o non c’è

teorema che te lo possa far piacere.»

«E come si fa?»

«Che fai, adesso, mi parli tu di Dio? Non hai appena detto che non vuoi?»

«Ma… così. Curiosità…»

Lo guardo e in realtà spero in una risposta, perché a tu per tu non mi vergogno di parlare di Dio. Ci penso spesso, soprattutto la notte, quando rimango solo e, come dopo una tempesta, tutte le cose inghiottite dal mare vengono rilasciate con dolcezza sulla spiaggia. Messaggi, relitti, morti, tesori.

«Vieni a darmi una mano con i bambini di Brancaccio.»

«Ma io non so fare niente, lì serviranno persone preparate. Non so manco come ci si arriva.»

«Sai giocare a calcio?»

«Sì.»

«Hai tempo?»

«Poco, prima di partire.»

«Poco è più che sufficiente. Sai quante tessere ci sono nei mosaici del duomo di Monreale?»

«No.»

«Neanche io. Nessuno ha mai avuto il coraggio di contarle. Eppure è la superficie di mosaico più vasta del mondo. E ogni tessera, per quanto piccola, è importante. Allora ti aspetto. Chiesa di San Gaetano. Centro Padre Nostro. Mi trovi lì. Segnati il numero di telefono, magari prima mi chiami, così ti spiego la strada.»

Mi saluta con un abbraccio, e io non so come si abbraccia un professore. Rimango rigido, mentre lui mi avvolge con un calore che non mi aspettavo. Sento le mani forti sulla mia schiena, come uno che si appoggia e ti sorregge al tempo stesso.

Don Pino sorride e se ne va.

Rimango a fissarlo, di spalle. È vestito come al solito. Pantaloni neri un po’ troppo larghi. Un paio di scarpe gigantesche che lo fanno sembrare ancorato a una base più che sui piedi, come i giocatori del Subbuteo di mio fratello. Una camicia e un giubbetto blu scuro. Lo usa tutto l’anno, sia col freddo sia col caldo. È minuto e la testa coperta da qualche capello grigio gli conferisce l’aria del prete di campagna.

Più avanti nel racconto, si ritorna con la mente a parlare della gita scolastica a Monreale:

«Ti ricordi la gita a Monreale?»

Una delle cose per cui l’anno scolastico non è stato del tutto inutile. Le cose migliori si imparano sempre fuori da scuola. Ci avevano accompagnati 3P e il professore di arte […]

«Dopo Santa Sofia a Istanbul è la superficie musiva più grande del mondo.  La più grande d’Occidente, quantomeno. Seimilaquattrocento metri quadri di tessere suddivisi in centotrenta enormi scene tematiche e figure singole, immerse in un mare d’oro che spoglia la pietra di ogni consistenza e trasporta lo spettatore nella luce paradisiaca di Dio. Il duomo è stato costruito come grande teologia della luce.

[…]

«Là dove passa la luce, il mondo è salvo. Riscattato dalle tenebre. Niente è lasciato al caso, in questo edificio.

[…]

Chi entrava doveva compiere un cammino di purificazione nella luce e le storie sulle pareti scandiscono questa progressione, culminando negli occhi del Cristo Pantocratore da cui tuttoscaturisce e a cui tutto ritorna, come nei versi del Paradiso di Dante: La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove» aveva aggiunto don Pino.

[…]

Pensa alle tessere che compongono quei mosaici. Prima sono milioni separate le une dalle altre, ciascuna con il suo colore, la sua forma, le sue imperfezioni. Poi tutte vanno a comporre l’immagine. L’immagine di Dio.

Noi siamo come tessere che, disposte una accanto all’altra, insieme realizzano la polifonia di Dio nel mondo.»

«Ma a me non importa tanto essere parte di una polifonia, io vorrei capire qualcosa della piccola tessera.» [disse Gianni].

«E come puoi se non consideri l’insieme?».

Ecco, proprio la visione d’insieme conferisce senso e fa brillare l’apporto di ogni singola tessera e rende tutti corresponsabili della stessa missione evangelizzatrice.

Come fare dunque per attuare questo cammino di liberazione e di promozione umana? Padre Puglisi ripeteva spesso con estrema lucidità: “Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno per fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto…”.

Il cambiamento sociale innescato da don Puglisi era un “segno” e, contemporaneamente, un “sogno” missionario, animato da una accurata analisi dei segni dei tempi, che ha consentito di attivare una conversione attraverso la corresponsabilità: “Se ognuno fa qualcosa”. La conoscenza del territorio era il primo passo perché lo spazio trasformato dalle istanze sociali potesse passare dall’essere un mero agglomerato di individui al volto di una comunità. Costruire e ricostruire la vita comunitaria: da qui nasce il centro parrocchiale di accoglienza “Padre Nostro”. Per questo don Pino fu in prima linea con i suoi parrocchiani e con i volontari nella raccolta di firme del comitato intercondominiale che chiedeva per Brancaccio dei servizi primari: l’allaccio della fognatura, un distretto socio-sanitario, una scuola media, ecc.

Don Pino aveva un sogno, che purtroppo non poté realizzare. Pochi sanno che tra la fine del 1992 e gli inizi del 1993 stava lavorando al progetto di una nuova chiesa a Brancaccio. L’edificio della Chiesa avrebbe avuto un modello assembleare, ampio; e tutto intorno sarebbe stata immersa in una vastissima area verde, con accanto un teatro e un ampio spiazzo per le celebrazioni all’aperto. Non può non colpire la sproporzione tra le aree destinate a rimanere verdi: don Pino voleva creare un grande parco verde, un polmone per il quartiere, dentro cui vi fosse un altro polmone, quello spirituale. Lì avrebbero trovato spazio i locali della pastorale, i campi sportivi, zone pensate per i bambini e per gli anziani. In un quartiere squallido e degradato la parrocchia doveva essere immersa nel verde e diventare un luogo bello da vedere e da frequentare, coniugando così promozione umana ed evangelizzazione. È da notare lo spazio che don Pino vuole si riservi alla biblioteca, che ci fa pensare alle migliaia di volumi trovati nella sua casa dopo l’uccisione.

Sul comodino della sua stanzetta c’è ancora un libro, usurato dal tempo, rattoppato nel dorso con un nastro di scotch grigio, che già nel titolo dice tutto: “Un prete scomodo” di Domenico Mondrone, sulla storia di padre Pedro Poveda, fondatore dell’istituto delle Teresiane, appartenuto a don Pino dal 1962. Sapeva anche lui che essere prete, fino in fondo, significava essere “scomodo”: perché non avrebbe dovuto cercare la sua comodità, ma anche perché il Vangelo scomoda: è questa la differenza cristiana. Dunque, anche la sua azione evangelizzatrice non poteva che dare “fastidio”, perché autenticamente evangelica, e per questo venne ritenuta scomoda. Così si comprende il martirio in odium fidei di Padre Pino Puglisi, che è la cifra differente rispetto agli altri martirii e agli altri martiri civili.

Voleva dare un’alternativa, perché c’è una promessa di bene in ciascuno, una liberazione possibile da tutte le schiavitù, compresa la liberazione dalla schiavitù mafiosa, che opprime gli uomini e ne sfigura il volto. Questa azione liberante è propria del Vangelo. Padre Pino comprende, infatti, la sua azione di parroco e di educatore nel suo “esserci” e nel suo “essere per” l’altro, come tutta la vita del Cristo è stata una pro-esistenza, tutta consumata per la salvezza dell’uomo. Ciò chiarisce anche la reazione che Padre Puglisi ebbe quando, dopo una intimidazione a Brancaccio, i giornali lo additarono come “Prete antimafia”. Egli la respingeva dicendo di non essere mai stato “anti” qualcosa o qualcuno, ma sempre al servizio degli altri, per il bene degli altri. A tutti voleva dare un messaggio di speranza, senza distinzioni, perché anche i mafiosi, i suoi stessi persecutori e uccisori erano destinatari del suo ministero. E a loro parlava con franchezza, con la parresia del testimone del Cristo risorto, pregando e chiedendo con forza la loro conversione.

Ecco un altro tratto di padre Puglisi: era un uomo dell’ascolto, perché pregava. Lo testimonia il modo in cui parlava di Dio, il suo amore per Gesù e il tempo che dedicava alla preghiera personale.

Come ha scritto Papa Francesco nella recente lettera per i trent’anni della morte di don Pino Puglisi (20.8.2023): “Sull’esempio di Gesù, Don Pino è andato fino in fondo nell’amore”. “Le strade del quartiere erano la Chiesa da campo che ha servito con sacrificio e percorso durante il suo ministero pastorale per incontrare la gente, in una terra da lui conosciuta e che non si è mai stancato di curare e annaffiare con l’acqua rigenerante del Vangelo, affinché ognuno potesse dissetarsi e godere il refrigerio dell’anima per affrontare la durezza di una vita che non sempre è stata clemente. Tutti ricordano ciò che egli rispose all’assassino: «Me l’aspettavo». E quindi sorrise: quel sorriso, che – continua il Santo Padre – menzionai nell’omelia in occasione della mia visita a Palermo cinque anni orsono (S. Messa al Foro Italico), ci raggiunge come «una luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore».

Potremmo legittimamente chiederci: cambierà qualcosa dopo la celebrazione di questo trentennale? Senza dubbio il modello che don Pino ci consegna è la pedagogia dell’esempio; il metodo è la corresponsabilità; la condizione è l’essere testimoni, non di se stessi, ma della novità del Cristo risorto.

Il testamento del martire, allora, è l’apertura di un tempo nuovo, il cammino del dopo segnato dai semi di Vangelo che ancora attendono di essere seminati.

Per questa ragione, ci sono due termini da chiarire, per preservarli dalla facile retorica, e lasciare che continuino a provocarci: banalità e resilienza.

La filosofa politica Hannah Arendt 60 anni fa teorizzò questo rischio, alla luce del famoso processo del generale Eichmann a Gerusalemme, quando si rese conto che il male radicale di chi aveva perpetrato azioni mostruose, erano ritenute come “normali”, per chi diceva da aver obbedito solo a degli ordini. Il Male che Eichmann incarna appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. E’ questo il rischio che don Pino legge nella facilità a compiere il male e ad avvertirlo come tale nei ragazzi di Brancaccio. Per questo, il Centro Padre Nostro viene sognato come il cuore di una vera sfida educativa, non come un insieme di stanze da usare per attività ricreative. Don Pino esulta quando uno dei bambini del Centro, nonostante le minacce del fratello maggiore, sceglie di chiedere scusa ad un altro bambino a cui aveva fatto un torto evidente. Lo considera un piccolo miracolo, un segno che il Vangelo inizia a erodere la mentalità mafiosa per la quale la prepotenza è un dovere.

Si tratta di assumere l’emergenza educativa in modo serio e critico, reagendo con speranza alle sconfitte e ai fallimenti. E qui trova spazio la resilienza della bellezza. È la bellezza dell’ascolto di don Pino, nella crisi di adulti non comunicativi e incapaci di tempo per la relazione. È la bellezza del suo farsi quotidianamente presenza, del suo esserci. È la bellezza del sorriso di don Pino, una luce gentile che scava dentro e rischiara il cuore, sebbene sfigurata dal suo carnefice, che da quell’incontro però ne esce segnato per sempre. È la bellezza insanguinata, trasfigurata dal martirio, della sua vita donata. È la bellezza dei suoi volontari, delle assistenti sociali missionarie, delle famiglie e dei ragazzi a cui mostra il volto del Buon Pastore, del Padre Nostro, a cui mostra la liberazione possibile. È la bellezza del Vangelo tra resistenza e resa: resistenza al male, al rischio della sua banalità, di chi spera, lotta, soffre e si offre, in quella vita resa a Dio in cui è tutta la sua forza. È la bellezza della Pasqua, nell’anticipo della trasfigurazione, cosicché il Natale di Padre Pino Puglisi diviene la sua Pasqua (15 settembre); e la sua Pasqua coincide con il suo Natale, il cui germe era già stato seminato nel battesimo.

Per questo il martirio di Padre Pino Puglisi profuma di crisma: sacerdotale, regale e profetico.

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