Diario dal Coronavirus 2. Ci vediamo domani

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di Giuseppe La Russa

  • Prof?
  • Sì, dimmi
  • Ma il capitolo sulla pandemia causata dal Covid-19 lo dobbiamo fare tutto?
  • Fammi controllare un attimo, ma credo di sì.
  • Anche l’approfondimento intitolato “La morte della didattica”
  • Ehm… No no, non mi trova totalmente d’accordo, evidentemente chi ha scritto il libro non ha una buona memoria storica.
  • È vero che lei lo ha vissuto quel momento
  • Se è per questo avevo quattro anni quando cadde il muro di Berlino e sedici quando caddero le Torri Gemelle!
  • Cavolo prof, un secolo fa…

E mentre i ragazzi appuntavano sul diario gli argomenti su cui preparare la verifica ormai prossima, la mia mente corse verso quel lontano 2020 e a quel 21 febbraio, una data ormai impressa nei manuali di storia, un giorno diventato ricorrenza nazionale e durante il quale si commemorano le numerose vittime che quel virus allora sconosciuto fece.

Certo, è davvero strano e bello poter fare una lezione di storia su un avvenimento vissuto: ho pure mostrato ai ragazzi le foto del Duomo di Milano deserto, ho raccontato di come fossi da pochi mesi diventato papà, ho associato a dei numeri delle storie fatte di carne e di vita vissuta; ma quel paragrafo intitolato “La morte della didattica” no, non riesco a digerirlo. Furono, quelli del 2020, i giorni in cui si approntò una veloce e, sì, un po’ arrabattata didattica virtuale: in particolar modo se paragonata ai mezzi di oggi. Ma ricordo che, dopo circa dieci giorni di chiusura delle scuole, quelle antiquate piattaforme ci permisero di vederci in volto, seppure a distanza. Ecco, rivedersi, seppure attraverso un schermo, in piena pandemia, fu una emozione di cui ancora oggi sento l’eco. Ci trovavamo a cinque, sei chilometri di distanza, eppure quel maledetto virus ci poneva di fronte ad una lontananza impossibile da colmare; non sapevamo ancora che quell’anno non ci saremmo più rivisti, che avremmo poi svolto l’esame virtualmente. Ma quel giorno, il primo della DAD, acronimo che fu utilizzato per la Didattica a distanza, avvenne una cosa miracolosa: un primo miracolo fu quel ragazzo – c’è sempre il simpaticone di turno in una classe – che mi chiese di poter andare in bagno; ma poi, alla fine, il saluto: “ci vediamo domani”!

Ecco perché questo paragrafo io non posso farlo studiare, ecco perché quel giorno la didattica non è morta, perché quel giorno noi, come docenti, abbiamo permesso, in modo forse un po’ arrangiato, che ci fosse un domani. Per quei ragazzi che da dieci giorni circa brancolavano nelle loro camere in attesa che qualcuno dicesse loro cosa fare, sapere di dover alzarsi, accendere un computer e vivere una giornata di scuola – diversa, ma pur sempre una giornata di scuola – fu letteralmente un miracolo.

Ma poi, mi chiedo ancora oggi: donare un domani non è forse il compito, vero e assoluto, della scuola? In quel periodo nessuno si preoccupò di “finire un programma”: che andasse al diavolo il programma! Lì in gioco c’erano le vite quotidiane dei ragazzi, c’era il loro aspettarsi qualcosa dal quotidiano sorgere del sole, c’era in gioco la luce dei loro sguardi. E poco importava se essa dovesse oltrepassare dagli schermi di un logoro computer, perché quando la luce è viva scavalca qualsiasi limite e se ne frega della distanza: e ricordo benissimo quel bagliore, in quella mattina, quando ci siamo detti “ci vediamo domani”.

Abbiamo riso, sì. Perché forse non ci saremmo più rivisti dentro ad una classe (e poi andò proprio così): ma per loro è stato vitale riprendere in mano un diario, appuntarsi dei compiti, scegliere la felpa da mettere l’indomani. Questa è la scuola, è quel bagliore lì, e lo è stato ai tempi del coronavirus, ma lo è ancora: la scuola deve far sì che un domani ci sia, sempre. Deve essere una ricerca di senso, individuale e collettivo, indagine continua del proprio desiderio, attraverso verifiche, voti, interrogazioni, ma anche sguardi, battutine più o meno stupide. Che poi, diciamo le cose come stanno: ricordo che noi insegnanti eravamo contenti forse più dei ragazzi: risentire le loro voci, seppur alterate dalla virtualità, fu come far risuonare le mura di casa nostra di un pezzo della nostra famiglia, perché la scuola è anche questo, è una estensione della famiglia stessa, è un altro specchio entro cui guardarsi.

Ricordo che il ministro di allora – ho dimenticato il nome, il libro non lo riporta, tra l’altro – ci provò a mettere una pietra sopra questa ricerca di senso, dicendo agli inizi di aprile che chiunque avrebbe superato l’anno scolastico. Certo, molti ragazzi si sono sentiti autorizzati a non studiare più, hanno sentito quel periodo come un’anticipazione delle vacanze estive: ma la vita se ne frega di un decreto di tal risma! La vita, se deve andare avanti, corre e basta, alla faccia di decreti e mortificazioni. E così fu allora. Lì in gioco non c’era un anno scolastico, il superamento “burocratico” dello stesso: lì, ogni giorno, i ragazzi alimentavano il fuoco del domani, continuavano a sentirsi flusso ardente e non cenere morta, e ciò lo permetteva un semplice strumento che consentiva di vederci – sì, di vederci – a distanza. Era il nostro abbraccio quotidiano, era la nostra condivisione, il momento che nulla e nessuno poteva strapparci. Era il nostro tempo, era il nostro presente.

Si disse che la didattica non era quella e la cosa ci trovò d’accordo e mi trova ancora d’accordo: la didattica si fa di presenza, guardandosi negli occhi. Ecco perché quella modalità, che negli anni si è pure affinata, non ha mai sostituto la scuola canonica. Ma in quei mesi quella nuova forma di insegnare fu una opportunità, carpì il nostro silenzio e lo trasformò in voce viva, diede nuova linfa a giorni di buio e che l’Italia visse con ansia e apprensione. Ci fece comprendere che era importante mantenersi vivi, o che era semplicemente importante man-tenersi, tenersi per mano: che poi è quello che la scuola ha fatto e sempre farà. Che poi è quello che i ragazzi hanno sempre fatto e fanno tutt’ora, anche adesso che sono alle soglie della pensione: le loro parole mantengono, mantengono il cuore giovane, vivo, acceso. E poco importava se quelle voci venissero da lontano. Era quella la contingenza, era quella l’urgenza. E durante l’esordio della didattica a distanza scoprimmo quanto grande fosse udire le nostre voci, quanto quella fosse la cosa più bella che quel giorno potesse capitarci. E che ci sarebbe capitata anche nei giorni a venire. E così ci si alzava dal letto sapendo che dentro quel computer c’eravamo noi: noi!

Mi ero davvero attardato in quei pensieri, quasi da non rendermi conto cosa stesse succedendo in classe. Cavolo, la vecchiaia…

  • Prof, la campanella è suonata, possiamo andare?
  • Sì ragazzi, scusatemi, andate pure.
  • Ci vediamo domani prof.
  • Sì ragazzi, ci vediamo domani!

 

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