Quella sera ho provato grande commozione e gratitudine allo stesso tempo

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di Giuseppe Notarstefano

Il commento a quanto detto da papa Francesco il 27 marzo in Piazza san Pietro è affidato oggi a Giuseppe Notarstefano, vice presidente nazionale dell’Azione Cattolica, che ha risposto ad alcune domande che gli abbiamo posto.

Quali sensazioni o emozioni ha provato nell’assistere all’evento?

Chi come me ha visto il Papa salire il sagrato da solo, a piedi, non potrà mai dimenticare la forza drammatica e la potenza “deponente” di quel gesto. Solo il Santo Padre, come soli eravamo noi che lo guardavamo alla TV. Per questo vicini come non mai, determinato nell’andare verso la croce nell’accogliere un cammino di sofferenza e dolore. Solo attraversando questo – ci ha mostrato – tutti noi potremo andare oltre e superare il magnifico crocefisso di San Marcellino imponente nella sua sobrietà scarifica ogni orpello paraliturgico della nostra ritualità e di una religiosità inquinata spesso dall’astrazione di pizzi merletti e incensi, che ci ha fatto dimenticare che ciò che celebriamo affonda nella carne, ferita e colpita. la carne smarrita e sconfitta più dalla tragedia dell’abbandono e del tradimento che dallo stesso dolore fisico. Ho provato grande commozione e grande gratitudine allo stesso tempo.

Il Papa è partito nella sua comunicazione dal tema del “ritrovarci sulla stessa barca” e poi ha precisato che nessuno si salva da solo? Che significato assumono queste parole?

Questa pandemia ha sorpreso tutti noi, ci ha trovati impreparati. La nostra tecnologia e la nostra capacità organizzativa – talvolta compulsiva nel determinare procedure, regolamenti, standard a cui attenersi – non ci ha messo al riparo da uno shock di questa portata; stiamo iniziando a comprendere – non tutti però – che se ne usciremo, lo faremo tutti insieme. Cooperando tra pubblico e privato, tra persone e istituzioni, tra ricchi e poveri, tra est ed ovest. sud e nord. Oggi più che mai la profezia della “casa comune” di papa Francesco e della fraternità universale di papa Benedetto è quella visione che può ispirarci nel ripensare in profondità regole e forme della nostra vita civile e sociale. Ci dovranno aiutare quanti oggi sono stati in prima fila, coloro – medici, governanti, amministratori, scienziati, volontari   – che hanno abitato il limite di questa grande catastrofe. La loro resilienza sarà preziosa per la ripartenza di tutti.

Parlando poi del “tempo della scelta” ha detto che è tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. Che valore possono avere queste parole oggi?

In questo leggo la consegna continua del metodo del discernimento al quale il papa gesuita sta cercando di educarci. Un metodo che è parte della sapienza e della tradizione cristiana, ma che spesso è stato dimenticato perché è impegnativo e ci chiede un esercizio attivo di responsabilità e concretezza. Non si tratta di applicare ciecamente delle regole, ma di interpretarle alla luce dei segni dei tempi, di ridefinirle in modo che siano sempre più il modo con cui cresciamo insieme come comunità Mirando all’essenziale che viene dall’ascolto della vita e della sua trama naturale. Prima di tutto. Occorre dunque recuperare uno sguardo contemplativo capace di scrutare nella natura la sapienza che in essa ha iscritto il suo Creatore. Siamo chiamati a ripensare la nostra civiltà secondo le categorie della cura e della custodia.

La circostanza che stiamo vivendo ha fatto parlare della pretesa di onnipotenza dell’uomo moderno. È così?

La cura della vita nostra e delle persone che vivono accanto a noi, cura che sia promozione della vita sia accompagnamento dei suoi ritmi naturali e delle sue fragili armonie. Tra cui la malattia, la sofferenza, il dolore. La cultura tecnocratica ha tentato di rimuovere, dimenticare, formulando una nuova eresia che consiste nella pretesa di onnipotenza promessa universalmente dalle tecno-scienze e blandita dall’etica utilitarista e individualista che ha occupato militarmente le scienze umane. Avere cura è in primo luogo riconoscere la fragilità e la vulnerabilità della vita, il suo limite che non costituisce mai un ostacolo per realizzare la pienezza della vita o se vogliamo la felicità il ben-vivere o l’eudaimonia.

Un tema forse dimenticato nel dibattito di questi giorni è quello del bene comune. È d’accordo?

La custodia è responsabilità di ciò che ci viene solamente affidato e che può essere generativo (ossia per la vita) oppure estrattivo e distruttivo, come lo è estato il modello produttivo perpetrato dalla forma capitalistica dell’economia liberista di mercato che ha condizionato fortemente il diritto internazionale, gli istituti giuridici e le politiche pubbliche. Custodia è responsabilità sociale nella gestione delle risorse e dei beni che sono di tutti, soprattutto quelli comuni la cui utilità si rivela solo nella fruizione condivisa, cooperante e collaborativa. Il Bene comune oggi più che mai non può separarsi dal principio della opzione preferenziale dei poveri la forza della catena sociale si tiene solo se tengono le persone e le realtà più marginali. Un modello che produce disuguaglianze ad ogni livello è destinato ad implodere in un crescendo di distruzioni di ogni tipo. Custodire e curare sono i verbi attivi che dovranno progressivamente sostituire gli ottocenteschi verbi produrre e distribuire.

Il Papa ha poi parlato degli spazi. Ha detto che è necessario “Trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà”. Come si fa a parlare di spazi in un momento in tutti viviamo solo nello spazio delle nostre abitazioni?

La consapevolezza di appartenere all’unica famiglia umana che può salvarsi solo se sta insieme, invita a riconoscere la terra come casa comune e quindi come spazio che può essere rigenerato da un nuovo progetto di fraternità. Essa può nascere dalla solidarietà semplice e concreta dalla riscoperta della prossimità che stiamo facendo in questi mesi. Il vicinato, il condominio, il quartiere sono luoghi aperti alla fraternità, dove è previsto il conflitto ma mai la contrapposizione, dove abitano tensioni e pulsioni che però diventano occasione di crescita se vengono vissute insieme, in modo partecipato. La fraternità è il grande “progetto” cristiano che nasce dall’amore e dal dono gratuito che il Signore fa di sé al mondo. È il progetto paradossale e rivoluzionario delle beatitudini. È la follia della croce, vergogna e stoltezza per i pagani di tutti i tempi. È questo il compito dei credenti che, con umiltà e con grande magnanimità di cuore, insieme a tanti altri uomini di buona volontà sono chiamati ancora oggi così come in altri tornanti della storia a dare forma storica e concreta alla fraternità.

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