Christus vivit. Intervista a don Rossano Sala a partire dal Sinodo dei Giovani

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Don Rossano Sala sdb è professore di pastorale giovanile all’Università Pontificia Salesiana e direttore della rivista “Note di pastorale giovanile”. Nella sua qualità di segretario speciale della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi ha seguito fin dalle fasi preparatorie i lavori del Sinodo dei Giovani che si è concluso con la pubblicazione del documento finale: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È stato ospite della nostra Diocesi per alcuni giorni e nell’occasione gli abbiamo posto alcune domande sui giovani, a partire dal recente Sinodo.

Don Rossano il Sinodo era rivolto a tutti i giovani del mondo. Che immagine di giovane ne è scaturita? Cosa unisce i giovani di tutto il mondo oggi?

Una grande ricerca di pace e di giustizia. Hanno chiesto con forza alcuni “generi di prima necessità” per vivere in questo mondo, hanno offerto una grande disponibilità a mettersi in gioco, e vivono una grande ricerca di vita, di speranza, di gioia. Molte volte trovano comunità “fredde” rispetto a queste loro richieste. Sono alla ricerca di testimoni autentici, che non parlino di Dio, ma incarnino la vita cristiana in modo coerente e luminoso.

E i giovani del mondo occidentale? Come sono e cosa chiedono?

I giovani occidentali vivono in un mondo molto più “omogeneizzato e orizzontale”. E quindi vivono molto più di altri dentro una cappa che li separa dalla trascendenza, cioè del fatto che c’è una apertura abituale alla vita che va al di là di questo mondo e che segnala che “c’è dell’altro” rispetto ad un piatto umanesimo esclusivo. Mentre in altri continenti questa dinamica di trascendenza è disponibile, per i giovani occidentali c’è un bisogno di spazi più ampi e profondi capaci di rispondere ad una domanda di senso che rimane sempre viva nel cuore di ogni giovane e che non può essere eternamente anestetizzata. I nostri giovani – lo abbiamo percepito al Sinodo – sono quelli che hanno di più, ma che in genere sono i più tristi; sono più sazi, ma anche più disperati rispetto ad alcuni loro coetanei africani o asiatici che sono certamente più indigenti ma anche più felici.

I giovani incontrano gli altri giovani con molta facilità, anche se provengono da contesti geografici diversi e distanti. Possono i giovani essere la chiave di volta del problema dell’immigrazione?

Al Sinodo è stato uno dei temi più dibattuti: le migrazioni sono state riconosciute come “paradigma del nostro tempo”. Questo fenomeno ci dice innanzitutto che il mondo è sempre di più un villaggio; possiamo costruire tutti i muri che vogliamo, possiamo isolarci il più possibile, ma non possiamo pensare di restare fuori dal mondo. Il mondo è sempre più un piccolo villaggio dove tutto è interconnesso per cui i temi della giustizia, della pace e dell’ecologia risultano importanti perché avremo sempre persone che cercheranno una vita migliore. Tutti cercano vita, giustizia, pace: sono naturalmente orientati verso una speranza migliore. Per cui più che costruire muri dobbiamo costruire pace, giustizia, fratellanza. L’unica cosa da fare è crescere nella fraternità.

Il tema della migrazione porta con sé quella della mobilità, che caratterizza in un modo o nell’altro tutti i giovani. Come incide nella loro formazione questa particolarità?

La Chiesa è attrezzata di per sé per la mobilità perché innanzitutto è presente in tutto il mondo, è una “agenzia internazionale” radicata un po’ dappertutto. Deve essere più connessa nel senso che noi in questo momento vediamo che ci sono Chiese che sono troppo particolari: cioè Chiese tendenzialmente chiuse in sé stessa e al lavoro per la propria sopravvivenza. In questo modo non c’è futuro e anche il presente è triste, perché si gioca sulla difensiva e non si apre alla presenza e all’apporto di altri. Pensate, per esempio, quanto la fede dei migranti può mettere in gioco la fede della comunità cristiana: è evidente che i migranti possono essere un pungolo per mettere in gioco la propria esperienza. Quindi, per dirla in sintesi, alla mobilità giovanile deve seguire una mobilitazione ecclesiale.

Il tema della legalità attraversa tutte le fasce giovanili. Come è stata affrontata al Sinodo?

La legalità è una dimensione certo internazionale, ma anche ecclesiale. Penso ad esempio al tema degli abusi che ha fatto emerge il fallimento di una intera classe dirigente a livello ecclesiale. Coprire un abuso è sintomo di corruzione e abbiamo bisogno di una Chiesa che sia sempre più coerente e trasparente, perché tante volte noi partecipiamo anche di un male sociale, essendone certamente non dei protagonisti ma delle persone che non sempre vi si contrappongono con energia. Il tema della legalità è innanzitutto un tema di purificazione per tutti. Non possiamo dire semplicemente “la Chiesa è santità” e pensare che la corruzione sta semplicemente “là fuori”. Non dimentichiamo poi che, nel tempo della rivoluzione digitale, i mezzi di comunicazione amplificano i nostri piccoli o grandi mali. L’etica vale innanzitutto in prima persona singolare e deve partire da chi ha responsabilità nella Chiesa. Questo porterà anche la società civile a mettersi in movimento. E certe volte abbiamo anche nella società civile degli esempi di resistenza alla corruzione che fanno bene alla vita della Chiesa.

Parliamo adesso della dimensione più costitutiva dei giovani: l’affettività, con tutte le conseguenze che ne conseguono. Se ne è parlato al Sinodo e in che termini?

Affettività, spiritualità cuore, sono temi molto legati. Noi siamo fatti di legami e di affetti e quindi questo è un tema fondamentale da riprendere anche in ambito ecclesiale. Ricordiamo che per esempio la pietà popolare è una risposta all’affecus fidei. Noi pensiamo che la vita affettiva sia solo espressione di qualcosa, ma è prima di tutto la sostanza della vita. Pensiamo per esempio all’amicizia: una miscela vivente di affetti, legami, comunione, condivisione. Come potremo vivere senza amici? È una dimensione fondamentale dell’essere umano su cui noi dobbiamo rimetterci in campo. Un certo intellettualismo che disprezza il mondo degli affetti non ci aiuta ad entrare in queste dinamiche in maniera coerente e costruttiva.

Ma su questo aspetto sono intervenuti tanti cambiamenti, quasi epocali. Come si risponde?

Stiamo vivendo, almeno in occidente, un distacco epocale tra natura e cultura. Anche la biologia dell’uomo c’entra. Pensiamo che la media dell’età delle persone che si sposano è molto più alta rispetto al passato. Questo significa che è molto difficile entrare in una logica di affettività vera e piene che non sia vissuta precedentemente, anche se il matrimonio avviene in media tra i 30 e i 35 anni. Al Sinodo è stato detto ripetutamente che c’è bisogno come Chiesa di mettersi in discernimento per trovare delle vie utili per rinnovare la pastorale. Non possiamo accontentarci di dire “si è sempre fatto così” e non possiamo dire semplicemente “c’è una legge universale” da applicare sopra le persone. C’è invece un autentico discernimento da fare sulle situazioni e sulle realtà. Non possiamo condannare totalmente cose che rispondono ad una legge che non solo è molte volte statica, ma che è venuta fuori in un’altra epoca storica. La storia della Chiesa ci assicura che non c’è mai un cambiamento di dottrina, ma che siamo sempre in cammino verso una migliore comprensione della fede in ogni momento della vita dell’umanità e della Chiesa. Questo è il lavoro del discernimento che ogni epoca storica deve fare e quindi dobbiamo farla pure noi, non sottraendoci ad una fatica che è toccata a tutti.

 

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