Le vite parallele del beato Pino Puglisi e del giudice Rosario Livatino

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di Francesco Inguanti

Cosa hanno in comune il beato Pino Puglisi e il giudice Rosario Livatino? Cosa unisce le loro vite, oltre al fatto di essere stati uccisi entrambi per mano mafiosa. Perché l’uno è stato proclamato beato e dell’altro è in corso il processo di beatificazione? A queste domande risposto in modo esauriente e chiaro don Giuseppe Livatino, sacerdote della Diocesi di Agrigento che è stato il postulatore della causa di beatificazione in sede locale.

L’occasione è stato un incontro svoltosi nel palazzo Arcivescovile di Monreale promosso dall’Arcivescovo mons. Miche Pennisi cui ha partecipato un nutrito gruppo di studenti liceali e universitari.

Nell’introdurre i lavori mons. Pennisi ha affrontato il tema della lotta alla mafia affermando con grande chiarezza che se per un verso continua a trasmettersi lo stereotipo di Sicilia uguale mafia, per altro verso è ben chiaro come la Sicilia abbia pagato un tributo altissimo di persone uccise dalla mafia perché ad essa si sono opposte. “Tra queste Livatino e Puglisi – ha detto Pennisi – che si sono impegnate a contrastare la mafia a partire dalla fede cristiana. La loro testimonianza è importante per affermare che la lotta alla mafia non è legata solo ad appartenenze ideologiche, ma riguarda anche la Chiesa che ha pagato il suo tributo di sangue, e non solo in Sicilia”. Pennisi ha poi voluto ricordare la testimonianza di don Luigi Sturzo che già nel 1900 scriveva che la mafia ha i piedi in Sicilia ma la testa a Roma. Prima di dare la parola a don Livatino, Pennisi ha voluto ricordare il famoso anatema lanciato da san Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 in cui si scagliò contro i mafiosi per invitare a convertirsi, avvenimento accaduto fuori dal protocollo dopo che il Papa aveva incontrato proprio i genitori di Livatino.

Don Livatino ha inizialmente affermando che le due figure sembrano apparentemente molto diverse. Per estrazione sociale: Puglisi cresciuto in una famiglia povera, Livatino in una della borghesia agrigentina. Per condizione professionale: Puglisi sacerdote consacrato, Livatino magistrato desideroso di formare una famiglia. Per ambito di impegno: Puglisi nella Chiesa palermitana, Livatino nella magistratura agrigentina.

“Al di là di queste apparenze – ha detto – sono molti i punti in comune di questi due testimoni. Il primo è che nessuno dei due era anti: Puglisi non era un prete antimafia, Livatino non era un magistrato antimafia”. Don Livatino ha dato uno spaccato della attività professionale del giudice dimostrando come nella sua azione si sia occupato di tanti aspetti e reati legati alla sua professione. “Mai – ha aggiunto – è stato chiamato a fare il paladino dell’antimafia, così come Puglisi mai ha voluto identificarsi con l’azione di contrasto alla mafia. Entrambi, invece, hanno lavorato per contribuire alla crescita morale e civile della società”.

Don Livatino ha poi voluto sfatare una sorte di “leggenda” secondo la quale il giudice non avesse chiara consapevolezza del contenuto del suo lavoro e dei rischi che correva. Al contrario, e si trova scritto nei suoi appunti, aveva piena consapevolezza del rischio della vita che correva e si augurava che nessun male potesse giungere ai suoi genitori a causa del suo lavoro.

Don Livatino ha poi riferito di un evento particolarmente significativo: la richiesta del sacramento della cresima. “Il giudice – ha ricordato – lo chiese nel 1988, non più giovanissimo, a 36 anni e a due dalla morte, perché capì che poteva essergli chiesto anche il supremo sacrificio della morte”.

Poi don Livatino ha riferito di un evento ben più noto: la rinuncia alla scorta. Rinuncia fatta in piena consapevolezza, certo che se avessero voluto lo avrebbero comunque ucciso e che in quel caso anche altri innocenti sarebbero morti.

Altro aspetto fondamentale è il rifiuto di alcun tipo di pubblicità della sua azione.

“Lui rimase in magistratura – ha aggiunto il relatore – 11 anni, 9 da Sostituto Procuratore e 1 da Giudice A latere, ed 1 da Uditore a Caltanissetta. In tutti questi anni non rilasciò mai alcuna intervista. Mai avrebbe anticipato gli esiti di una indagine. Per lui esisteva solo il segreto istruttorio. Si potrebbe dire, con riferimento a Puglisi, che anche lui vive una dimensione professionale in termini sacerdotali. Il suo giramento aveva una duplice valenza: l’una in quanto magistrato e servitore dello Stato, l’altra in quanto cristiano. Lui voleva rendere conto non solo alla società, ma anche a Dio. Proprio per questo non trattava gli indagati come imputati, ma come persone in cui viveva il riflesso di Dio, persone umane titolari di diritti e di dignità. I suoi presupposti erano evangelici. Per lui non era sufficiente applicare la legge, ma si sforzava di capire la situazione in cui vivevano le persone che incontrava.

In una delle due uniche conferenza pubbliche che tenne, quella su “Fede e diritto” disse: “Amministrare la giustizia è donazione di sé a Dio”. Riuscì a rendere la sua testimonianza cristiana anche quando si trattò di toccare i nervi scoperti della società: politica, imprenditoria e criminalità organizzata. In questa attività riuscì a individuare una compravendita di voti attraverso l’emissione di fatture false, molto prima che nascesse “Tangentopoli” esattamente nell’ottantadue, quando ancora neanche il reato di voto di scambio era codificato. Non si fermava mai neanche di fronte ai reati ambientali. Inevitabile dunque l’isolamento. Come pure per don Puglisi. Nessuno dei due cercava la pubblicità. Il peccato è ombra e per giudicare ci vuole la luce. E nessun uomo è luce. Per quanto la sua attività fosse poco nota ai più era ben nota alla mafia.

Il relatore ha poi raccontato di quanto riferito da coloro che cercavano copertura in qualche giudice. La risposta era sempre: “Io ti fare il favore, ma c’è sempre Livatino”, come dire che lui era “inarrivabile”. Aveva una curiosità fanciullesca per i lavori agricoli e spesso andava con i parenti in campagna per apprendere queste tecniche. Negli ultimi anni soleva dire ai suoi parenti: Andiamo con due macchine”, anche quando non era necessario perché aveva paura di coinvolgere i suoi familiari in un suo eventuale omicidio. Già due anni prima della morte comincia ad avvertire il pericolo per la sua vita.

Negli stessi anni si incrinava anche il suo rapporto con la magistratura, cioè all’interno del Palazzo di Giustizia di Agrigento. Arrivava a scrivere nelle sue agendine: “Qualcosa dentro di me si è spezzato”. Solo successivamente durante le fasi di ricostruzione del processo di beatificazione si è capito che in quegli anni si voleva creare un pool di magistrati che indagassero sui fatti di mafia. Intuisce che quella scelta è “per farlo fuori” e in effetti cominciano a toglierli le indagini più importanti di mafia.  Chiede perdono a Dio e per due anni non si accosta all’Eucarestia perché non si sente a posto. Così annota nella sua agenda: “Oggi dopo due anni finalmente mi sono comunicato. Che Dio abbia pietà di me”.

Tra gli appunti delle agendine si trovano i suoi più grandi desideri. Da lì si è appreso che voleva avere una famiglia. Solo una volta fu fidanzato ufficialmente, ma in procinto di sposarsi la fidanzata gli chiese di trasferirsi ad Agrigento. Ma lui non si sentiva di lasciare soli i suoi genitori anziani a Canicattì, e così non se ne fece nulla. La sua grande paura era di lasciare una vedova e dei figli orfani.

 

Il giorno prima del suo omicidio anche gli organi di polizia sapevano che ci sarebbe stato un omicidio eccellente. Anche lui lo sapeva, ma andò regolarmente a lavoro. Come Puglisi anche Livatino non voleva farsi imporre un atto di violenza dai mafiosi. Puglisi capì che stavano per ucciderlo e rispose: “Vi aspettavo”. Anche Livatino fa qualcosa di simile. Dopo i due primi proiettili esce dalla macchina e si precipita nel vallone, ma no per paura, aveva già capito che stava per morire, ma per affermare che non avrebbero potuto fermare. Quando lo raggiungono esprime lo stesso concetto di Puglisi e dice: “Che cosa vi ho fatto?” Anche in punto di morte non minaccia e non esprime odio. Già in quegli anni mons. Cataldo Naro prestava molta attenzione alla figura di Livatino e lo fece inserire tra i relatori del Congresso della Chiesa Italiana di Verona.

Prima dell’anatema di Agrigento il Papa per ben due volte aveva parlato di mafia ai Vescovi siciliani. Don Livatino ha rievocato i momenti dell’incontro del papa con i genitori del giudice, raccontando come finito il pranzo l’Arcivescovo di Agrigento mons. Carmelo Ferraro gli fece trovare questi due anziani genitori nel Palazzo Arcivescovile. Li presentò e non aggiunse altro. Il Papa non disse una parola. Dopo lui dirà che una cosa è leggere le conseguenze delle azioni criminali, una altra cosa è toccare con mano cosa produce la mafia nella nostra società. I testimoni di quel pomeriggio e le riprese video parlano di un Papa molto distratto, assente, pensieroso. Dopo il congedo del Diacono a fine Messa scattò l’imprevedibile: il Papa prese il microfono e disse quelle parole che sono rimaste scolpite in tutti gli anni successivi. Non dimentichiamo che quelle parole sono per noi magistero.

Don Livatino ha così concluso: “È importante che il patrimonio frutto di tutti coloro che sono impegnati in questa lotta e che magari non sono conosciuti dalle cronache non venga dimenticato. Non bisogna abbassare la guardia perché la mafia ha il potere di cambiare pelle e di tante altre cose. Il nostro compito è quello che quando diciamo di essere cristiani dobbiamo abbracciare la scelta della coerenza”.

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