di Dino Calderone
Il commento alle parole del Papa in Piazza san Pietro è affidato oggi a Dino Calderone è docente di Filosofia nei Licei a Messina e membro del Direttivo della CRAL (Consulta regionale delle aggregazioni laicali).
Fra le tante battute, più o meno felici, che ho ritrovato in questi giorni sul mio whatsapp, una in particolare mi sembra rendere bene il clima che come credenti stiamo vivendo. In un’immagine che ritrae due figure, una di queste rappresenta un governante che dice all’altra che simboleggia Dio: “con il Covid-19 ti ho chiuso le chiese”, e Dio risponde “Al contrario! Ne ho aperta una in ogni casa”.
Tutti, o quasi tutti, abbiamo ben presto capito che gli effetti del coronavirus non si sarebbero fermati all’ambito, pur già importantissimo, del settore medico-sanitario. Il contagio del coronavirus, risulta, a quanto pare, uno dei più elevati ed insidiosi, rispetto anche ad altri virus ritenuti pure pericolosi. Questo aspetto è quello che da solo condiziona, come minimo, ogni attività umana, anche la più banale e quotidiana. A questo tipo di condizionamento non poteva quindi sfuggire evidentemente neppure la comunità ecclesiale, in quanto composta da persone in carne ed ossa, che non solo ha fede in Dio, ma ha fede in un Dio incarnato, il Dio di Gesù Cristo, per usare l’efficace formula di un teologo contemporaneo. Non c’è niente di umano, dicevano già i padri della chiesa, che sia estraneo alla fede cristiana, ed anche se il coronavirus si tenesse lontano, per qualche imperscrutabile e misteriosa ragione, dalla comunità ecclesiale, i cristiani dovrebbero occuparsi, a maggior ragione, di ciò che accade a tanti nostri fratelli.
Piaccia o no, è questo il cuore dell’annuncio cristiano che in momenti molto difficili deve risuonare con più forza, proprio perché è nei momenti di maggiore paura e bisogno che ci vuole più fede e preghiera. Non a caso, la lettura scelta in occasione della Preghiera del papa per la fine della pandemia (27 marzo 2020) è la pagina del Vangelo di Marco 4,35-41 “La tempesta sul lago”, che in poche righe concentra il massimo di significati capaci di illuminare potentemente l’attuale condizione umana.
Come sempre, poi, il Papa è stato molto bravo a collegare la pagina evangelica al nostro drammatico presente. Senza pretese di completezza voglio mettere in fila alcune cose dette (qui non riporto il testo preciso) dal Papa che non possono essere dimenticate e che devono valere come promemoria anche dopo la fine di questa pandemia: “la tempesta smaschera le nostre false sicurezze; è illusorio pensare di potersi salvare da soli; siamo tutti nella stessa barca; solo stando insieme potremo salvarci; Gesù veglia stando nella parte più pericolosa della barca perché lui si fida del Padre; noi ci siamo addormentati ai problemi degli altri; abbiamo anestetizzato la nostra memoria e le radici per fare fronte alle avversità; siamo andati a tutta velocità avidi di guadagno e non abbiamo ascoltato il grido dei più poveri; come si può pensare di restare sani in un mondo malato?; è necessario appellarsi alla fede per avere fiducia in Dio; è tempo di scegliere ciò che conta rispetto a ciò che passa; fare rotta verso il Signore che ci ha donato la vita”.
Da questi ricchissimi richiami, anche se incompleti, del discorso di quella sera, si possono trarre tante preziose indicazioni, non solo sul piano della prassi pastorale, ma anche dell’impegno del laico nel mondo che deve saper leggere i segni dei tempi ed agire di conseguenza. La lettura che papa Francesco fa è da un lato realista, perché non nasconde i problemi del pianeta, come ha già fatto nella lettera enciclica Laudato sii , ma non indulge in catastrofismi pseudo apocalittici di certi ambienti, anche cattolici purtroppo, che attribuiscono a maledizioni divine quanto sta succedendo.
Anche in situazioni come queste emerge un messaggio di speranza perché fondato su una Speranza che non delude. Papa Francesco non partecipa al corteo funebre di chi dice che la globalizzazione è finita, ma insiste perché abbia uno sviluppo sempre più vicino alla solidarietà ed alla inclusività sociale, mai allo scarto. Con lo stile che gli è proprio, papa Francesco ha trovato non solo le parole giuste, ma anche gesti e segni all’altezza della situazione.
Colpisce da sempre la capacità che ha questo Papa di coniugare l’essenzialità della fede cristiana, la carità verso il prossimo, la pietà popolare, ma certo la preghiera in piazza San Pietro del 25 marzo è stata un vero colpo al cuore che ha toccato anche molti non credenti. La suggestione di una piazza completamente deserta ha certamente contribuito a creare un clima cosi suggestivo, ma 15 minuti di adorazione eucaristica nelle TV anche commerciali sono qualcosa di unico. Il silenzio che parla più e meglio di ogni altra parola, anche di quelle importanti della dottrina cattolica.
I legami con la diocesi di Roma, presenti nel sagrato di San Pietro, sono due importanti punti di riferimento anche per la devozione popolare: l’icona Salus populi romani della Madonna col Bambino ed il crocifisso di San Marcello al Corso, ritenuto miracoloso dal popolo romano perché uscito illeso dalle fiamme che distrussero la chiesa nel 1519 e per questo venne portato in processione in tutta la città in occasione della pestilenza del 1522 per fermare l’epidemia.
Da soli, anche quando pensiamo di essere forti e potenti, affondiamo. Dio non ci lascia mai in balia della tempesta, ma ci aiuta a passare all’altra riva. Lo Spirito ci dà quella creatività che sa generare nuove forme di convivenza più umane e fraterne. Ogni occasione è propizia e questa, per tanti versi, lo è ancora di più.
Infine, un ricordo grato ai nostri sacerdoti. L’immagine della chiesa come ospedale da campo, tanto cara a papa Francesco, sembra assumere in questa occasione del coronavirus la sua espressione più tragica e cruda con il centinaio di presbiteri morti proprio in trincea a fianco di tanti fratelli.